IL CONCERTO DEI DESTINI FRAGILI Maurizio de Giovanni

IL CONCERTO DEI DESTINI FRAGILI, di Maurizio de Giovanni

Ne acquistai una copia, un anno fa. Di ritorno dal Salone del Libro di Torino. Mi mancava. Il romanzo edito da Solferino non era tra quelli che avevo letto. E non faceva ancora parte della mia collezione personale di libri. Lo acquistai. Ma decisi di non leggerlo. Qualcosa mi diceva che mi avrebbe fatto male. Ed è stato così. Un anno dopo.

Ma chi lo dice poi che la letteratura deve raccontare solo le cose belle? Che deve avere necessariamente un lieto fine?

Il 2020 è stato un anno difficile. Banalmente e drammaticamente difficile.

In cui il destino di ognuno di noi è diventato un destino fragile. In cui ognuno di noi si è mosso come individuo. Ed è uscito dal gruppo. Come “Jack (John) Frusciante”. Fuori dalla comunità della quale faceva parte.

Chi respirava bene quasi si sentiva in colpa. Chi al mattino si svegliava respirando male, veniva preso dall’angoscia della morte. Dall’inquietudine che preannuncia il “distacco”.

Un anno difficile, dicevo.

È stato l’anno, per lui, fatto di dolorosi addii. Di addii senza ritorno.

E questo libro che è stato scritto “in un giorno di vento di aprile in cui non venne la primavera”, è un libro che racconta l’inferno. L’inferno di quei giorni.

Che parla del sole. Del sole che non c’era. Di una primavera che attendemmo invano. Che parla dell’ignoto. Come ignoto e ostile era lo sguardo reso appena visibile dalle mascherine taroccate, colorate, scelte come un tempo si sceglieva il colore di un vestito da cerimonia. Facce uguali e disperate. Che ci hanno fatto vivere in un presente quasi distopico.

“Niente sarà mai più come prima. Niente”.

“Il concerto dei destini fragili” è un romanzo fuori dagli schemi del Crime, scritto prima ancora de “L’equazione del cuore” e de “L’antico amore”. Un romanzo nel quale però il cuore e l’amore ci sono, ci stanno tutti e abbondantemente. Un romanzo di un’intensità sconvolgente.

Tre storie che si possono leggere in due modi differenti: seguendo l’ordine indicato dall’autore e quindi come voce alternate oppure seguendo ogni singola voce dall’inizio alla fine, la prima, la seconda, la terza. Fino al punto in cui le tre storie diventano una soltanto. Quelle voci che sembrano così diverse, così distanti, giusto per restare in tema, distanti, quelle voci s’incontreranno, alla fine, in un inaspettato canto corale. E sarà allora che si darà l’avvio a un concerto. Un concerto che, assicuro, spacca il cuore.

Il giovane dottore gentile, l’avvocato, Svetlana. Tre cicatrici. Qualcuna più profonda delle altre.

Ma quanta musica può dare uno strumento che suona da solo?

Si muovono così, in tempi rallentati, come in un film di quelli su pellicola che si possono mandare, per l’appunto, a rallentatore.

Le loro, vite sospese. Come le nostre. Segnate dai numeri e dalle percentuali. Ma noi non eravamo numeri e neppure percentuali. Eppure ogni giorno guardavamo a quei numeri sperando di non entrarne a farne parte.

Più andavo avanti con la lettura del romanzo, più era forte il richiamo verso una delle storie del commissario Ricciardi: “Febbre”. Scritto nel 2014. Quasi una premonizione quella di de Giovanni. Anche se il titolo di questo racconto fa riferimento alla febbre da gioco, che diviene poi un gioco criminale. Ma la parte in cui l’autore descrive la “malattia” e la morte come “distacco” sembra per davvero profetica.

Così, Maurizio de Giovanni in “Febbre”.

“È una febbre. Una febbre. Senza medicine, senza cura. Una febbre mortale che strappa ogni emozione, ogni sentimento. Una febbre che porta alla morte non solo di chi la contrae, ma anche di chiunque gli voglia bene”.

E non è stato forse così? In fondo, ognuno di noi ha perso qualcuno o una piccola parte di sé.

“Il distacco, la pena della partenza, la nostalgia acuta e disperata di quello che si sta perdendo e che non ritornerà più”.

Perché gli ammalati di Covid, quelli che si preparavano a morire, lo sapevano. Si preparavano al “distacco”. Doloroso, dolorosissimo.

“Gli dica che gli voglio bene, per favore”.

E il suo è un libro dolente che racconta tutto questo. Ma necessario. Come a dimostrare che ognuno di noi è una storia. Una storia importante che si lega, inesorabilmente, ad altre storie, importanti.

Mi piace pensare che la città in cui si muovono i tre personaggi, mai nominata nel romanzo, sia Napoli. Anche se Napoli non può essere perché un fiume come quello descritto da de Giovanni non ce l’ha. Napoli ha il mare. Napoli non è mai stata una città abituata al silenzio, al contrario, immersa nel frastuono che sovrasta ogni cosa. Eppure in quei giorni divenne spaventosamente silenziosa. In quei giorni trasformò la sua eterna fragilità dando prova di forza, di resistenza e di coraggio.

La mia Napoli, ritrovata.

Ognuno ha la sua storia preferita.

In questo romanzo la storia che mi è rimasta nel cuore, anzi no, che si è presa e portata via una parte del mio cuore è quella del giovane dottore gentile: il dottore e il vecchio, il dottore e il giovane.

E la storia, questa storia, mi ha fatta pensare a “Old man” di Neil Jung. “Old man, take a look at my life, I’m a lot like you”. (“Vecchio mio, guarda la mia vita, guarda come vivo, sono molto simile a te”).

Ma adesso lascio che a parlare sia la voce dello scrittore. Che così racconta la vita e la morte.

“Il vecchio era arrivato dal reparto di Cesio e sembrava pronto ad esalare l’ultimo respiro. Lo avevano intubato, aveva cominciato senza molte speranze le terapie. Il paziente però contro ogni previsione aveva risposto, e a un certo punto era stato possibile liberargli le vie respiratorie. Era stato allora che si era trasformato in Luigi, un sorridente nonno di sei nipoti che non smetteva di descrivere, uno per uno, a chiunque gli capitasse a tiro.

Era diventato un’oasi nell’infermo del dolore. Le infermiere ridevano sotto i caschi protettivi, perché Luigi raccontava di conoscere i marziani, cioè tutti loro, e queste erano le storie preferite del nipote più piccolo che si chiamava Luigino cioè Luigi, come lui, solo più giovane.

Per lui, per il dottorino, la tappa accanto al letto di Luigi si era fatta indispensabile. Gli ricordava il suo stesso nonno, con cui passava tanto tempo, che se n’era andato che lui studiava fuori, che ancora sognava, che gli mancava tanto. Che il signor Luigi stesse meglio era importante, per lui. Importantissimo. Perché in qualche strano modo era come riportare in vita suo nonno.

I pazienti sono tutti uguali certo: ma il signor Luigi era un po’ più uguale, come avrebbe detto Orwell. Perché gli strappava un sorriso quando riproduceva con la bocca i rumori elettronici dell’astronave, perché gli faceva tanta tenerezza quando raccontava storie credendo fossero tutti suoi nipoti, perché lo commuoveva quando tra sonno e veglia ricordava sua moglie che era morta da anni, chiamandola ˂˂la nonna˃˃.

Poi all’improvviso quel vigliacco organismo che si era annidato nel corpo del signor Luigi aveva deciso di sferrare il proprio attacco e di nuovo il tubo, di nuovo la caduta verso l’abisso. […]

Quegli occhi teneri […] si chiusero, e a un certo punto, fu chiaro che non si sarebbero più riaperti.

E invece, assurdamente, a un passo dall’ultimo respiro si spalancarono. Era notte e il dottorino era accanto al letto assieme a Ivana, la caposala. Il vecchio fece cenno al tubo, e con uno sguardo imperioso ordinò di toglierglielo. Subito […] sembrava voler dire qualcosa, e con la massima urgenza.

Prima ancora che lui potesse dare l’ordine, Ivana aveva estubato l’uomo […]

Appena libero, il signor Luigi, tossì. Non aveva forza, ma gli occhi erano vigili e sicuri.

Disse piano: Dite a Luigino che sono partito con l’astronave. Che prima o poi torno da lui. Avete capito bene? Niente morte. Solo partito con l’astronave.

La fine del signor Luigi ci aveva lasciato con un buco nel cuore.

No. Non sono tutti uguali. Noi facciamo le stesse cose, perché l’abbiamo giurato. Ma loro non sono tutti uguali.

Qualcuno muore, ma qualcuno parte solo con l’astronave.

E poi torna”.

E chiudo questa mia riflessione con i versi della canzone “L’astronave Giradisco”, del poeta Lucio Corsi.

“C’era una fila di astronavi tra le stelle / E gente verde dentro gli autogrill / Con le valigie messe nelle navicelle / Tutti volevano arrivare lì / Nel mondo senza difetti / Dove gli umani erano gli unici assenti… / Sui tetti delle case / L’astronave Giradisco / Sparava un sound spaziale … / Per i mondi che spariscono / Nel mondo senza difetti / Il paradiso coi cancelli aperti / C’erano nuvole che trasportavano / Storie d’amore in balia dei venti / C’era una coda luminosa tra le stelle …”

Una coda luminosa tra le stelle. Hai letto, scrittore?

Chi parte con l’astronave, poi torna.

Di Giuseppina Guida

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