
Abbiamo intervistato Paola Barbato e approfondito la sua storia letteraria partendo dal suo ultimo romanzo “La Torre d’avorio”
Intervista n. 270
Innanzitutto grazie per aver accettato questa intervista. Come prima cosa le chiederei di presentarci il suo romanzo “La torre d’avorio“.
Grazie a voi per l’interesse dimostrato verso il mio libro. E’ una storia che parla di seconde occasioni, del tentativo di superare gli errori passati e dell’estenuante ricerca di una redenzione. Mara Paladini, quando ancora si chiamava Mariele Pirovano, ha avvelenato la sua famiglia a causa di una sindrome che l’affligge da sempre e che nessuno ha mai individuato: la Sindrome di Münchhausen per procura. Dopo otto anni in una struttura psichiatrica e cinque di auto-reclusione in una città estranea, si vede incolpata per un avvelenamento di cui non ha responsabilità. E dopo un’intera esistenza dedicata a condannarsi, si trova costretta e cercare salvezza.
Mara, la protagonista, è un personaggio che cerca di cancellare il proprio passato e di costruire una nuova vita. Quali sono i rischi e gli inconvenienti dietro un’operazione del genere, e soprattutto è davvero possibile fuggire dal proprio passato?
Il passato è la base sulla quale si costruisce il presente e da cui si parte per progettare il futuro. Sfuggirgli, negarlo o rimanerne succubi sono tutte trappole che portano solo alla paralisi. L’ambizione di Mara di affrancarsi dal suo passato è quindi irrealizzabile, se non passa prima per l’accettazione, se non per il perdono.
Mara è chiusa nella sua torre d’avorio finché una cosa di per sé quasi banale come una macchia di umidità sul soffitto non arriva a sconvolgere la sua nuova vita. Mi ha fatto pensare in qualche modo allo “strappo nel cielo di carta” di Pirandello, cosa pensa a riguardo?
E’ un paragone gratificante ma lontano dalle mie intenzioni. Invece credo fortemente che siano gli eventi minimi quelli che, sulla lunga distanza, portano alle più grandi conseguenze, proprio perché creano uno sfasamento tra il prima e il dopo che apparentemente sembra trascurabile e quasi sempre non lo è.
Quale messaggio si sente di trasmettere come questa opera?
Sono molti i contenuti che mi stanno a cuore, a partire dall’accettazione che la salute mentale sia un problema di tutti, anche di chi non si considera malato, che il trauma avvicina e lega anche persone lontanissime e che le seconde occasioni sono un diritto di tutti, se sappiamo coglierle.
Guardando ad altri suoi romanzi ricordo bene “Bilico” uscito 18 anni fa, un thriller ad alta tensione con un finale che ancora oggi lascia a bocca aperta. Che ricordi porta con sé di quell’opera e quanto è maturata da allora la sua scrittura?
“Bilico” è nato per gioco, volevo prendere l’impianto classico del thriller e stravolgerlo, impedendo al lettore di poter identificare i “buoni” e i “cattivi”, in un continuo ribaltamento delle parti. La scrittura è cresciuta con me, io non sono più quella donna e oggi scriverei “Bilico” in maniera completamente diversa, non tanto perché la mia scrittura sia cambiata, quanto perché mi sono evoluta io.
Ho molto apprezzato alcune sue opere per bambini dove prende i classici elementi horror dell’infanzia spogliandoli dei loro aspetti paurosi e mostrandone le fragilità. Quanto è difficile approcciarsi a un mondo complesso come quello dei bambini e all’insieme delle loro paure? E quali sono secondo lei gli strumenti narrativi per aiutarli ad affrontarle?
I bambini sono un pubblico delicatissimo, più difficile degli adulti e assolutamente non di serie B. A quelli più grandi cerco di insegnare il bene che si trae dalla paura, che ci costringe a un confronto con noi stessi e a trovare strategie per affrontarla. Ai più piccoli mostro che ogni cosa ha sempre più di una faccia, compreso ciò che temiamo, e, qualche volta, se riesci a individuarla, tu diventi più forte e la paura più piccola.
Non posso non farle un paio di domande sull’universo di Dylan Dog, in primis per manifestarle la mia stima e gratitudine per avermi regalato alcune delle storie a cui sono più legato come “Necropolis” e “Il cimitero dei Freaks”. Ci può raccontare cosa vuol dire far parte di quel mondo?
Mi sono avvicinata a Dylan come lettrice, nei miei 16 anni, e per questo sono un’autrice che non si concede scappatoie: la lettrice che ancora rimango me lo impedirebbe. E’ un universo colmo di regole, ci si può entrare solo dopo approfonditi studi, e una volta imparato tutto è necessaria la ricerca di un’idea originale. Una volta in mano tutto, bisogna affrontare la coerenza del personaggio: Dylan non si piega alle mie storie, devo essere io a farlo.
Trovo che lei sia riuscita a prendere il personaggio e a farlo suo con grande personalità e, nonostante questo, mantenendo la coerenza con quanto creato da Tiziano Sclavi. Quanto è difficile e/o stimolante lavorare in questo modo?
Entrambe le cose, al 50°%. Dylan non è un personaggio, è una persona, e io non posso cambiarlo. Posso però metterlo in situazioni che lo stimolino ad agire, ma sempre coerentemente con la sua personalità. Molto difficile e in certi casi frustrante, certo, ma è una sfida continua.
Quali sono gli aspetti dell’Indagatore dell’incubo e del suo mondo che più l’affascinano?
Condivido il suo amore e la sua pietà per i mostri e amo che, pur scettico, accolga i dubbi a braccia aperte. Io e Dylan condividiamo la convinzione che siamo esseri limitati e non ci possiamo concedere certezze.
Prendendo le distanza da Dyaln Dog, che certamente non li apprezzerebbe, le chiedo qual è il suo rapporto con la realtà dei Social Network.
Lo stesso rapporto che ho con tutto il resto dello scibile umano: dipende da come lo usi. Puoi usare un coltello per uccidere o per cucinare e un libro per leggere o appiccare un incendio. I Social sono la mia finestra sul mondo, dato che non ho una grande vita al di fuori della dicotomia famiglia/lavoro. Mi sono creata delle bolle in cui interagisco volentieri col pubblico e quel che non mi piace semplicemente lo elimino. Con la realtà non potrei farlo, quindi è un bel vantaggio.
Le faccio un’ultima domanda, ringraziandola per la sua disponibilità. C’è tra i tanti romanzi che ha scritto qualcuno che le ha dato maggiori soddisfazioni o che indicherebbe come ideale per comprendere la sua proposta narrativa?
E’ una domanda che mi fanno spesso, ma non ho risposta. Ogni libro è figlio del suo tempo e di quella Paola, che non è la stessa del libro precedente e di quello seguente. “La Torre d’Avorio” è lontanissimo dal libro che ho appena ultimato, eppure sono entrambi miei. Quindi, uno qualunque va sempre bene.
Intervista di Enrico Spinelli
LA TORRE D’AVORIO Paola Barbato
La narrativa gialla vista dalla parte di chi indaga – L’Investigatore dell’incubo Dylan Dog
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