Abbiamo intervistato Gian Marco Griffi che con risposte esaustive ha affrontato alcuni temi del suo romanzo “Digressione”

Abbiamo intervistato Gian Marco Griffi che con risposte esaustive ha affrontato alcuni temi del suo romanzo “Digressione

 

Intervista n. 269

 

 

 

  1. Prima di tutto grazie per aver accettato questa intervista. Come è arrivato a concepire un’opera complessa e monumentale come “Digressione” e quanto tempo ha richiesto la sua gestazione?

 

Digressione nasce da una lunga stratificazione di osservazioni, esperienze, storie e frammenti narrativi che si sono accumulati negli anni. Ci sono cose che mi porto dietro da decenni, e che qui trovano finalmente una forma compiuta, come per esempio l’idea dell’apocalisse botanica (nella parte intitolata Il giorno delle elezioni). A un certo punto ho sentito la necessità di ordinare il mio immaginario, che è piuttosto vasto, e di costruire un mondo che lo contenesse; ho sentito la necessità di costruire quel mondo che in Ferrovie del Messico avevo iniziato ad abbozzare. L’ordine è arrivato attraverso la storia di un oggetto (un libro, la copia trentatré della Historia poética) e di un uomo (Arturo Saragat, protagonista di Digressione, che seguiamo da quando ha sei anni a quando ne ha 69). Ma è stato un lungo lavoro di immaginazione prima di mettermi a scrivere. Ci ho pensato e ripensato per due anni, prendendo migliaia di appunti (anche di una sola parola), e alla fine, quando mi sono messo a scrivere, mi sono fermato a lavoro ultimato. Ma avevo bene in mente la struttura, avevo in mente il finale, avevo in mente come costruirlo e come intrecciare le vicende. Naturalmente un conto è avere in mente un progetto, un altro è metterlo giù, scriverlo.

 

 

 

  1. Un romanzo come questo sconvolge un po’ l’attualità fatta principalmente di testi di dimensioni contenute e dalle trame lineari. Quanto coraggio e quali stimoli ci vogliono per realizzare un progetto simile? E quale messaggio porta con sé un lavoro così ricco di storie e spunti di riflessione?

 

Non è questione di coraggio. Forse un po’ di incoscienza, quello sì. Invece ci vogliono degli stimoli enormi. Senza stimoli non riuscirei a scrivere neppure un racconto di una pagina, figuriamoci un romanzo. Gli stimoli sono sempre gli stessi che coinvolgono e sconvolgono gli esseri umani da diecimila anni, suppongo, rapportati alla mia esperienza: la realtà nella quale vivo, le persone con cui mi relaziono, la bellezza, la bruttezza, le questioni della vita, il male, il bene, la relazione tra uno e l’altro.

Quanto al messaggio – non so se ci sia un messaggio – potrebbe essere: la realtà è complessa, e per raccontarla bisogna costruire un progetto altrettanto complesso. Nel caso di Digressione dovevo costruire un mondo, il mondo nel quale si muovono i personaggi della storia, che è un mondo alla deriva su un bivio nel tempo che non è il nostro bivio nel tempo, ma un altro. Non che sia peggiore del nostro, e neppure migliore, è semplicemente un altro. Ma per costruirlo avevo bisogno di spazio e di tempo.

Insomma Digressione non vuole trasmettere alcun messaggio, io non voglio trasmettere messaggi, i messaggi li mando con whatsapp; Digressione vuole raccontare una storia e vuole raccontare il nostro mondo, offrendo un campo aperto in cui il lettore possa inciampare, perdersi, trovare appigli o smarrirli. I numerosi piani temporali, i personaggi secondari che diventano principali e poi tornano nell’ombra, i temi che si inseguono – tutto serve a suggerire che la complessità del mondo non è riducibile a una formula semplice.

 

 

  1. Credo che una delle chiavi di lettura del romanzo stia nel titolo stesso, “Digressione”, una sorta di gioco che ritorna spesso nel corso dei capitoli. Cos’è per lei la digressione e quanto può essere fonte di arricchimento o di confusione per il lettore?

 

Il capitolo 26 (Effemeridi del labirinto dei labirinti) comincia così: «Calixto Escalera Del Pilar era ossessionato dall’idea di morire, decomporsi, sparire, ed era convinto che l’unico modo per ritardare il momento cruciale, l’attimo risolutivo ch’egli temeva così tanto da non avere altro pensiero, fosse ritenere la vita un’immane digressione nel tragitto che dal grembo materno conduce spietatamente alla tomba».

Calixto, il laberintero inmortal, è un personaggio chiave del romanzo: emerge che la digressione – il racconto che devia, si perde, si infila in vicoli ciechi – non è solo un espediente narrativo, ma un gesto esistenziale. Digredire è cercare un altro punto di vista, una via d’uscita dal reale, una fessura nella linearità del tempo e della morte. Come Calixto costruisce un labirinto per sfuggire alla morte, così i personaggi si immergono in storie sempre più remote per evitare la banalità, la resa, l’oblio. La digressione diventa forma di resistenza, di libertà, di poesia. Certo, non è soltanto questo. Nel romanzo la digressione viene affrontata sotto tutti i punti di vista, ma non è mai semplice divagazione o disordine, ma sempre forma di esperienza del mondo, metodo conoscitivo, gesto etico. Nel gioco inventato da Wolfgang Knappertsbusch (l’alchimista che insieme a Mary Shelley e alla sua cricca, su stimolo di una fantesca di nome Valérie, concepisce il gioco che chiama appunto Digressione), la digressione diventa un paradigma esistenziale: si può digredire da sé stessi, dalla morale, dal tempo, dallo spazio, purché si mantenga un filo che consenta il ritorno. In questo senso, il romanzo diventa anche una riflessione sul racconto stesso come ritorno, come viaggio che deve “smarrirsi per sapere di esistere”. Non credo che possa essere fonte di confusione per il lettore: niente, in questo romanzo, è stato lasciato al caso, niente è stato messo dove sta per caso. Non c’è mai confusione, c’è sempre un’idea chiara del progetto. Ogni frase, ogni parola, sta lì perché ho voluto che stesse lì, perché mi sembrava che dovesse stare lì. Perché era funzionale alla costruzione del romanzo, del labirinto, del puzzle. Poi certo, può piacere o meno, ma questa è un’altra questione.

 

 

  1. Il protagonista principale è un ragazzo, Arturo Saragat, e pagina dopo pagina seguiamo il suo percorso di formazione. Quali sono le sue caratteristiche principali?

 

Arturo è raccontato nell’arco di tutta la sua vita, da quando è un bambino a quando è un anziano, e le sue caratteristiche cambiano nel corso del romanzo. Ma sostanzialmente ciò che lo contraddistingue è il suo senso di colpa e la sua incapacità di superarlo. Non è stato in grado di impedire il male, non è stato capace di essere gentile per illuminare il mondo, e ne paga costantemente le conseguenze. È una persona complicata, soffre di compulsioni e ossessioni (crede che se non mangia marmellata di fichi a colazione qualcosa di terribile accadrà a lui, alle persone che lo circondano o al mondo intero), nasconde l’amore che prova per paura o per vergogna, cresce senza padre e con una madre che lo ama moltissimo ma che non ha un grande istinto materno. Come quasi tutti i personaggi del romanzo ha un lavoro di merda (fa il figurante di Pinocchio in un parco tematico dedicato a Pinocchio) e il suo percorso è una lunga, faticosa iniziazione all’incomprensibilità del mondo, in cui però non manca mai un sottile filo di ironia. Arturo non si ribella in modo plateale, ma attraversa le situazioni con uno sguardo lucido e disilluso. E cerca costantemente. Cerca di trovare una redenzione, cerca la marmellata di fichi, cerca vendetta, cerca di contrastare il male.

 

 

  1. In “Ferrovie del Messico” del 2022 faceva la sua comparsa il libro “Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México” nel contesto storico della Seconda Guerra Mondiale. Si sarebbe aspettato allora che il famigerato volume sarebbe tornato da protagonista nei giorni nostri in un’altra opera?

 

No, l’idea di prendere la Historia poética e costruirci intorno parte di un altro romanzo mi è venuta dopo.

La Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México in Digressione è un oggetto sacro, un catalizzatore, un testimone silenzioso delle vite altrui. Il suo passaggio di mano in mano non è lineare né logico, ma anzi misteriosamente inevitabile, come le tappe di una profezia autoavverante. Ogni personaggio che lo possiede o lo sfiora viene definito da un momento di crisi, di svolta, di scelta morale o politica. Il libro diventa il medium attraverso cui la storia individuale s’intreccia con la Storia collettiva. Ogni passaggio da uno all’altro della copia trentatré della Historia poética è sia un intreccio con la storia principale che una parentesi narrativa in sé compiuta, che ospita a sua volta altre storie, riflessioni, divagazioni. È un testo sul movimento, ma non quello del progresso lineare: è il moto della digressione, l’Abschweifung, elevato a principio ontologico del raccontare.

 

 

 

 

  1. Quel libro è quasi un feticcio che attira la curiosità delle persone più disparate, e il suo contenuto rimane sostanzialmente un mistero. Cos’è che determina a suo avviso un attaccamento simile? E, da lettore curioso, ci sarà la possibilità di ritrovarlo in altre opere future?

 

Credo che il fascino della copia trentatré stia proprio nel suo non essere del tutto decifrabile: esiste più per evocare che per spiegare. Il suo potere sta in molti particolari, ma principalmente nel suo racchiudere le tracce di un’umanità che prova a fronteggiare il disordine del mondo. Nel paragrafo Ore 23.47 del capitolo 62 (il capitolo più lungo dei 73 totali, di 150 pagine circa), il cameriere kosovaro di una pizzeria di Asti trova il libro, lo apre e ci legge la lettera di Baudelia Amadia, mamma di Gustavo Baz, autore della Historia poética, scritta in esperanto, la lingua delle suore di Giuda di Santa Brígida de la Ciénaga: «[…] Letero de Baudelia Amadia al la posedantoj de ĉi tiu libro, e la lettera, nella stessa grafia del titolo, cominciava con le parole: «La mondo estas plena je magiaj objektoj», il mondo è pieno di oggetti magici. E continuava: «… anelli, armi, animali, strumenti musicali, pietre, libri. E questo oggetto che avete tra le mani è un oggetto magico. Se lo bruciaste, vi ritrovereste ad amare il fuoco, e vi gettereste tra le fiamme. Se lo scagliaste in un lago, tra quelle acque vi affoghereste. Se lo lasciaste cadere nel pozzo più nero e profondo che esiste al mondo, lo seguireste senza esitazioni. Eppure lui non appartiene a nessuno: ciascuna delle persone che lo possiederà è destinata a liberarsene, anche se penserà che il libro sia finito in mano sua per una ragione ben precisa. E sarà così, ma per una ragione diversa da quella che crederanno». E continua: «…E dunque questo libro, un oggetto magico che io mi sono limitata a suggellare, andrà per il mondo, di mano in mano, a dissestare le vite delle persone, fino al giorno in cui giungerà in quelle dell’uomo con gli occhi verde bottiglia e il volto macchiato. Perché proprio lui? Io questo non lo so: non sono la mano che ha lanciato i bastoncini dello sciangai, sono solo una giocatrice. Una zanzara ti punge e tu vedi «un» futuro. Perché deve essere così? Non mi chiedo più perché. Sono stanca, di chiedere perché. La risposta è che non deve essere così, ma «può» esserlo, e il fatto di essere possibile rende quel futuro inconfutabilmente reale: in ogni biforcazione, il sentiero che si sceglie di non imboccare non svanisce, ma produce un altro mondo, il quale si aggiunge al novero dei mondi pullulanti che si agitano nell’universo dell’ipotetico, quello sì sterminato – di più: infinito […]».

Ecco che cos’è, sostanzialmente, la copia trentatré della Historia poética. E Baudelia, sul retro, decide di scrivere «una parola sottile, raminga, moltiplicatrice di mondi e principio di ogni copula, che riunisce ogni contraddizione, dalla quale proliferano milioni di storie attorcigliate, sovrapposte, affastellate: Digressione».

Francamente non so comparirà ancora; dipende da quale parte del mio immaginario proverò ad affrontare con il prossimo romanzo, se mai lo scriverò (non è detto: ho scritto Digressione perché avevo gli stimoli giusti, perché tante persone hanno amato Ferrovie del Messico, perché avevo voglia di divertirmi, perché avevo voglia di raccontare, ma non è detto che sarà ancora così. Del resto io scrivo per divertirmi, per passione, e se non mi dovessi divertire farei a meno di scrivere).

 

 

  1. Già in “Ferrovie del Messico” avevo notato una certa impronta kafkiana. Qui si percepisce bene l’influenza de “Il castello” nelle lunghe procedure burocratiche che deve seguire Arturo, oltre al lungo iter per raggiungere l’ufficio Redenzioni, situazioni che per altro rappresentano perfettamente la nostra attualità, cosa che per certi versi rende ragione di una certa lungimiranza di Franz Kafka. Lei cosa pensa a riguardo?

 

Penso che Kafka fosse estremamente realista, e come tutti i realisti descriveva il mondo in cui viveva distorcendolo con la lente del fantastico, del tragico, dell’assurdo e anche del comico. E tutto ciò mi appartiene, lo sento mio, sia nella mia vita di tutti i giorni che nella mia scrittura, nel mio modo di raccontare una storia. E così Kafka è ben presente in Digressione, perché Kafka è inestirpabile dal mio immaginario, al pari di tanti altri (per esempio Beckett, oppure, per motivi diversi, più linguistici, Manzoni o Gadda). Del resto ci sono diversi rimandi a Kafka nel romanzo, impliciti ed espliciti. La loro funzione narrativa è principalmente quella di rimandare a un mondo, a un ambiente, a una struttura metaforico-simbolica, come per esempio qui, dal capitolo 58 (Morirai): «[…] Ma lo scarafaggio che Arturo Saragat seguì il dodici giugno duemilaventisette, sabato d’antipentecoste per gli iscariotici (che celebrano l’assenza dello Spirito santo dal cuore di Giuda, il vuoto lasciato dal rifiuto volontario della grazia), non era stato partorito da un’intelligenza artificiale. Era nato nell’ooteca di una femmina di blatta italiana, sua madre, e quel giorno, svegliatosi da sonni inquieti, sempre che gli scarafaggi possano svegliarsi, e possano farlo da sonni inquieti, si ritrovò trasformato in una immonda creatura pensante e dotata di autocoscienza. In altre parole, pur mantenendo le fattezze di una blatta in tutto e per tutto, il povero insetto poteva ponderare, ragionare, e insomma unirsi alla sterminata schiera di quegli esseri pensanti sempre in cerca di un significato da attribuire a ogni azione, gesto o emozione, crudelmente soggiogati da una forza magica e oscura che li induce a ponzare e riponzare senza sosta su questioni insolubili».

 

  1. Un altro elemento presente nel romanzo è il finale “alternativo” della vita di Benito Mussolini e la persistenza del fascismo in forma di rievocazioni storiche ma non solo. Quanto realismo c’è in questa apparente distopia?

 

Se la distopia è una rappresentazione immaginaria di una società futura (o alternativa) in cui si manifestano condizioni di vita estremamente negative, oppressive o disumanizzanti, spesso come conseguenza di uno sviluppo incontrollato di ideologie politiche, tecnologiche o sociali, in Digressione non c’è una distopia. Il mondo di Digressione non è un mondo peggiore del nostro, è soltanto diverso. Perciò parlo di ucronia. Anche se tutto sommato dovrei parlare di bivio nel tempo. C’è un romanzo di Murray Leinster, intitolato Bivi nel tempo (uno dei primi romanzi di fantascienza ucronica della letteratura), da cui sono partito per immaginare il mondo di Digressione come uno degli infiniti bivi nel tempo possibili e ipotizzabili. Naturalmente è viva e forte anche l’idea borgesiana del giardino dei sentieri che si biforcano: ogni scelta genera un bivio e un mondo nuovo si forma. A un certo punto del capitolo 16 (Una manicula verde) si trova: «Da pagina 674 a pagina 727 qualcuno aveva ricopiato negli spazi tra una riga e l’altra il romanzo Bivi nel tempo di Murray Leinster in ceco, con una calligrafia così tremolante e sbavata che nemmeno un ubriaco avrebbe potuto scrivere in modo tanto sbilenco. Ma che si trattasse di Bivi nel tempo in ceco, Schovávaná v čase, era certo, poiché un altro compilatore misterioso, evidentemente ceco pure lui – a un certo punto ho anche pensato che si trattasse dello stesso tizio, ma sobrio –, a pagina 779 (una pagina dell’Armamento delle truppe a cavallo tartare dedicata alla descrizione d’un fantomatico «moschetto atipico per le guardie del corpo dello scià», con tanto di illustrazione e didascalia: «Canna tonda con “pan”, piastra alla francese con martellina girevole, acciarino con sicura copriluminello e attacco per baionetta») aveva chiosato, in italiano: Viktor Štěpánek, tornato in patria come Jan Kovář, ha steso qui la sua traduzione di Bivi nel tempo in ceco, maturata giorno dopo giorno, becherovka dopo becherovka, al bar Hranaté Závorky di Karlovy Vary dal diciotto gennaio 1961 al nove maggio 1963; gentile lettore, tu che giri la pagina e ne ignori il motivo, sappi che Viktor Štěpánek lo ha fatto giacché è convinto che la nostra realtà sia una distorsione del continuum spaziotemporale provocata da un cataclisma apocalittico verificatosi il ventotto aprile 1945, e tutto ciò che dobbiamo fare per smettere di soffrire è scovare la nostra linea temporale originaria, l’unica giusta, l’unica vera, quella in cui Marta Nováková e Petr Štěpánek sono con Viktor Štěpánek, vivi, passeggiano sulla Žižkovo náměstí tenendosi per mano – Marta ha un vestito giallo di cotone sottile e Petr ha una trottola di legno pronta a prillare sulle mattonelle della piazza –, Marta racconta una storiella buffa, Petr si allontana per rincorrere tre piccioni che impauriti volano oltre la fontana di Sansone, verso il cielo abbagliante di České Budějovice, e dopo torna a stringere la mano di Viktor, con l’indice gli solletica il palmo un po’ calloso, gli sorride insicuro e gli dice táta, quei versi che fanno «il giorno della libertà andremo al parco Stromovka a soffiare un pampeliška, a ridere dei capelli di maminka azzurri come l’ansa della Vltava a Krňany, a immaginare come sarà il mondo da grandi, a gridare che l’amore alla vita genera amore alla vita» sono scritti per me?, e Viktor gli risponde che tutti i versi, tutte le parole e tutte le háček sono scritte per lui, l’indomabile Petr Štěpánek, poi se lo carica in spalle per mostrargli quanto, dopotutto, sia piccolo il mondo.

Sotto, come se niente fosse, stavano le Dissomiglianze e affinità tra la sciabola dei dragoni e il paloscio degli ussari».

La distorsione del continuum spaziotemporale del 28 aprile 1945 è evidentemente la mancata fucilazione di Mussolini, il suo arresto e il suo esilio. Questo evento genera un mondo diverso in un diverso bivio nel tempo, nel quale il fascismo è percepito differentemente, un mondo nel quale basta indossare una fascia gialla al braccio per andare in strada e fare i bulli per rievocare avvenimenti storici.

Nel capitolo 20 (Una fascia giallo fluo con la scritta rievocazione storica) si legge: «All’indomani della morte di Mussolini, avvenuta il sedici ottobre millenovecentocinquantaquattro, una legge proposta dal deputato Gian Luigi Bracco e dal senatore a vita Ezra Pound, e approvata dal parlamento italiano, pur continuando a vietare la costituzione di gruppi con le caratteristiche del disciolto Partito fascista, consentiva la formazione di associazioni finalizzate alle rievocazioni storiche del Regime, e in special modo quelle relative ai ruggenti anni dello squadrismo e all’ultimo scampolo di vita di Mussolini, dall’esilio insulare alla morte a Pantelleria, dove la salma giaceva – stante il divieto di traslarla nel cimitero di San Cassiano Predappio – imbalsamata nella cripta del mausoleo eretto sul monte Gibele».

Insomma qui la narrazione ucronica diventa una lente che approfondisce e analizza tendenze già presenti nella nostra realtà: le rievocazioni storiche, il revisionismo, il culto delle identità nazionali portano con sé i semi del ritorno. Certe logiche non muoiono mai del tutto. Il fascismo, in Digressione, è una forma di spettro culturale che aleggia sul mondo, così come aleggia sul nostro mondo e sulla nostra realtà (sono convinto che se esistesse una legge come la legge Bracco-Pound centinaia di nostalgici fascisti si affretterebbero a rievocare il periodo del fascismo in Italia e nel mondo).

 

  1. Uscendo dall’ambito narrativo va da sé che soprattutto in questi anni siano diventati i Social la principale piattaforma di confronto/scontro e di condivisione. Qual è il suo rapporto con questa realtà?

Uso Facebook per scrivere a proposito della mia scrittura e della mia vita da scrittore del lunedì. Non mi interessa minimamente partecipare a discussioni sui social, anzi, non li leggo proprio. Sono un terribile orso. Rispondo ai commenti sotto ai miei post e basta. Durante la scrittura di Digressione per sei mesi non ho aperto un social, e sono sopravvissuto alla grande. Ogni tanto pubblico fotografie su Instagram, sempre legate alla mia vita da scrittore del lunedì. Ma fondamentalmente mi sono reso conto che vado sui social per noia, quando non ho altro di meglio da fare. E poi che cosa dovrei scrivere, su Facebook? Per dire a tutti come la penso sul mondo ho appena scritto un romanzo di mille pagine, non serve altro. Non nego che possa esserci anche la parte del confronto, ma io non lo saprò mai, perché non ho voglia di avere a che fare con gli stronzi che scrivono soltanto per scontrarsi, per rompere le uova nel paniere, per fare i bulli. Non tollero quel genere di persone. Non li voglio leggere, non li voglio ascoltare, non li voglio vedere. A meno che non debba farlo per provare a difendere qualcuno dalla loro intollerabile ignoranza e frustrazione, e allora sono costretto ad agire, per quel poco che so o posso fare.

 

  1. Un’ultima domanda (anche se con opere cosi ricche ce ne sarebbero da fare), ringraziandola per la sua disponibilità. All’inizio della Historia poética troviamo la frase “Non si può essere gentili in questo mondo oscuro” e il protagonista stesso è subito tentato di aggiungere un’altra negazione per correggere il messaggio. Come interpreta il fatto che un passaggio apparentemente semplice come questo, e che di fatto risolverebbe ogni problema a livello mondiale, sia nel concreto il più difficile da attuare?

 

Questa è una frase chiave. Arturo la legge sulla Historia poética mentre sta per bullizzare Tommaso, il compagno di classe che gli ha appena dato il libro, e lui si rende conto che è una frase sbagliata, è una frase comoda. Il fatto che il mondo sia oscuro (e il mondo è certamente oscuro, in questo 2025 più che nei precedenti miei 48 anni di vita), non ci giustifica a essere rudi, duri, cattivi. Non siamo giustificati a fare il male, mai. Anche se spesso confondiamo la cattiveria e il male con la stupidità e l’ignoranza. Ma Arturo non è né stupido né ignorante. Arturo sa bene che il male si sceglie, e che si può scegliere anche il contrario. Sa bene che non esiste un male assoluto così come non esiste un bene assoluto. Sa bene che l’essere umano è un guazzabuglio di cose, di emozioni di eventi, buoni, cattivi, buoni e cattivi e né buoni né cattivi. Ma sa altrettanto bene che la gentilezza può essere un atto rivoluzionario. Che prendersi cura dell’altro può essere una ribellione al mondo in cui viviamo. Semplice, banale, eppure difficilissima. Arturo non riesce a impedire il male e proprio la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua capacità di elaborare e di mettersi nei panni degli altri, gli impedisce di superare il trauma che dovrà fronteggiare a causa del male fatto a Tommaso. Il senso di colpa deriva sempre da un senso di responsabilità verso gli altri. Soltanto colui che sente questa responsabilità può soffrire per una colpa. E Arturo soffre praticamente tutta la vita. Pensa che l’amore sia un surrogato alla redenzione, ma l’amore per lui è complicato. La vita, per lui, è complicata. E illuminare il mondo diventa un’impresa quasi impossibile; dal cap. 38, (La grande ostensione di Draghignazzo IV e Calcabrina III), e con questo chiudo: «Oltre il grande albero di cachi, parzialmente ricoperta dall’edera, sorgeva un’edicola dedicata a Giuda Taddeo. Al suo interno, sorretto dalle mani possenti della statua di Giuda Taddeo con mezzo viso sfranto, il labbro rugoso e un sogghigno di fredda autorità, c’era uno scatolone con la scritta AMAZON sul quale qualcuno aveva aggiunto a mano, con un pennarello rosso, un avviso che diceva: «ACCENDI IL CERO, ACCENDI LA SPERANZA – Se trovi il cero di san Giuda spento significa che un freddo glaucoma sta offuscando il mondo; tocca a te riaccendere la fiammella della speranza. Accendi il cero, infila la tua offerta libera nell’apposita fessura sulla parte superiore dello scatolone (offerta minima 5 euro – che diamine, stiamo parlando della speranza del mondo!) e la tua vita sarà immensamente e gioiosamente gioiosa». Remo guardò Drino. Drino guardò Arturo. Arturo cavò dalla tasca dietro dei jeans una banconota da cinque euro spiegazzata, con due dita la stirò, osservò in controluce il ritratto di Europa, violentata da un dio in un bosco di salici. Dopotutto, disse, immaginavo che accendere la speranza per un mondo migliore fosse molto più difficile. Che so, pensavo che dovessimo ridurre l’impatto ambientale, studiare, prenderci cura dei più deboli. Si accigliò. Prendersi cura dei più deboli, ripeté. Che stupidi, continuò, bastava venire ad Asti in un sentiero lungo il Tanaro, sganciare cinque euro e accendere il cero di san Giuda. Alzò le braccia con fare pretesco. Ed ecco che io, disse con voce pomposa, Arturo Saragat, nell’anno del signore duemilatredici, solennemente m’accingo a riaccendere la fiamma della speranza nel mondo. Infilò la mano nella tasca destra dei jeans per prendere l’accendino, e lì ci trovò soltanto la castagna di suo padre. Frugò nella tasca sinistra, che era desolatamente vuota, poi rovistò nelle tre tasche della giacca. Ancora, la mano si ficcò frettolosa in entrambe le tasche dietro. Niente. All’improvviso un tremendo risolino sardonico gli sgorgò dalle labbra, allorché gli venne in mente, nitida come se la stesse guardando su uno schermo HD di ultima generazione, la figura torva e antipatica di Dj Super X che si intascava il suo accendino blu alla fermata dell’autobus. Sentì come se un paletto di legno gli stesse trafiggendo il cuore. Non possiamo animare la fiammella se non sappiamo come accenderla, mormorò. Perché noi non portiamo il fuoco.

Titilla proruppe in una risata, benché forse (pensò) non avrebbe dovuto.

Sarebbe stato troppo facile, sentenziò Drino».

 

Asti, 25 giugno 2025

 

Intervista di Enrico Spinelli

 

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