Abbiamo intervistato Viola Ardone e ripercorso la sua proposta narrativa partendo dall’ultimo romanzo “Tanta ancora vita”
Intervista n, 279

- Prima di tutto grazie per aver accettato questa intervista. Le chiedo prima di tutto di presentarci il suo nuovo romanzo Tanta ancora vita.
È un romanzo sulla possibilità del ritorno. Non sul ritorno a casa, ma a sé. Quando si attraversa il dolore, qualcosa si spezza e non sempre si ricompone nello stesso modo. Tanta ancora vita racconta quel tempo fragile in cui si tenta di capire se ciò che resta è ancora vita, appunto, o solo il suo fantasma.
Ci sono vite che si incontrano per caso, e nell’incontro trovano un modo nuovo di respirare.

- In quest’opera che personalmente considero un romanzo di formazione corale, una cosa che mi ha colpito favorevolmente è il fatto che i personaggi principali non siano definiti sin dall’inizio ma si scoprano pian piano, pagina dopo pagina. Ho avuto la sensazione che lei stessa, nel presentarceli, li stesse scoprendo insieme a noi, cosa pensa a riguardo?
Sì, scrivendo li ho conosciuti come si conosce qualcuno nella vita: per approssimazioni, per silenzi, per fraintendimenti. Io non progetto mai un personaggio, lo incontro.
La scrittura è un modo per avvicinarsi a chi non si conosce ancora, anche a se stessi. È un esercizio di stupore: se so già tutto, non scrivo. Se invece una voce mi sfugge, mi chiama, mi costringe a seguirla, allora comincio a scrivere.
- Mi è piaciuta tanto nonna Irina che impara l’italiano grazie a “Padre Dante” e alle sue terzine celebri. A quale esperienza, se c’è, si è ispirata nel creare questo personaggio così profondo? E la scelta di Dante come maestro potrebbe essere legata, al di là della sua importanza storico-letteraria, anche al fatto che il sommo poeta nella sua opera più celebre compie come Irina una sorta di viaggio di formazione?
Irina è nata da un’immagine: una donna sola, in una casa straniera, che prova a imparare una lingua sillabando versi che non comprende fino in fondo, ma di cui intuisce la musica. Ho pensato che la lingua potesse essere per lei un modo di ricominciare.
Dante, in questo senso, è più di un maestro: è il compagno di chi attraversa il buio cercando una forma di salvezza. Irina lo segue come si segue una voce nel buio, e, come lui, scopre che ogni viaggio per uscire dall’inferno è anche un viaggio verso una nuova lingua, quella che ci permette di nominare ciò che abbiamo perduto.
- Vita, l’altra adulta protagonista, vive con la propria depressione che personifica al punto da darle un nome e da esserne soggiogata, un’immagine estremamente concreta. Qual è a suo avviso il meccanismo per cui si arriva a vedere il proprio male come una persona? E quale il modo per liberarsene?
Quando il dolore non trova linguaggio, diventa corpo. Gli diamo un nome perché così possiamo parlargli, invece di farci divorare in silenzio. Vita chiama la sua depressione come si chiama un demone antico: non per evocarlo, ma per addomesticarlo.
Non credo che ci si liberi mai del proprio male, si impara a conviverci, a negoziare i confini, a ridurne la voce. Forse la vera guarigione non è cancellare la ferita, ma farla respirare insieme al resto di noi.
- Lo sfondo delle vicende narrate è un fatto di cronaca attuale come il conflitto russo-ucraino. Quanto è difficile approcciarsi a un tema così delicato risultando credibile senza cadere nel buonismo e nella retorica?
È difficile, perché la guerra è un linguaggio che inghiotte tutti gli altri. Io ho cercato di spostare lo sguardo: non raccontare la guerra, ma le vite che la attraversano. I piccoli gesti, le parole quotidiane, le scelte minime che diventano eroiche proprio perché invisibili.
La credibilità nasce dal dettaglio, dalla fragilità: più che dire “che cos’è la guerra”, ho provato a chiedermi “che cosa diventa l’amore, la fame, il sonno, la colpa dentro la guerra”.
- Le sue opere, soprattutto le più recenti, sono amate da tantissimi lettori e lettrici, e portano con sé tanti spunti di riflessione sull’attualità, penso ad esempio a Oliva Denaro, che a titolo personale metterei nei programmi didattici. Qual è la forza di quel romanzo? E quanto possono fare ancora la cultura e la narrativa per aiutare a superare troppi stereotipi duri a morire?
Forse la forza di Oliva Denaro sta nella sua semplicità: è la storia di una ragazza che dice “no”.
Ma quel “no”, detto in un tempo in cui alle donne non era concesso, ha un’eco che arriva fino a oggi. La libertà femminile è una conquista che deve essere riscritta ogni giorno, non solo ricordata.
La cultura non salva, ma disobbedisce. La narrativa, quando funziona, è un atto di disobbedienza dolce: mette in discussione le parole che usiamo per definirci e ci costringe a trovarne di nuove.

- Quali caratteristiche deve avere una storia per colpirla e spingerla a crearci un romanzo attorno?
Deve avere una ferita e un respiro. Una storia mi attrae quando sento che c’è qualcosa di non pacificato, qualcosa che chiede ascolto. Scrivere è il mio modo di stare dentro le cose che fanno male. Non per guarirle, ma per dare loro una forma che non distrugga.
- Lei è insegnante di Liceo. Quali sono oggi le difficoltà e le opportunità nell’approcciarsi ai ragazzi di oggi e quali le strategie per trasmettere loro la bellezza della cultura?
I ragazzi di oggi vivono in un tempo velocissimo, ma la letteratura è lentezza, è silenzio, è ascolto.
La sfida è far capire che leggere non serve “a qualcosa”, ma serve “a sé”. Che nella vita ci saranno momenti in cui nessun algoritmo saprà consolarli, e allora una frase di Pavese o di Szymborska potrà farlo.
Io credo nella scuola come luogo del possibile, dove una parola può ancora cambiare la traiettoria di un destino.
- Oggi come oggi tendiamo sempre più a confrontarci e scontrarci ma anche a comunicare attraverso i Social. Qual è il suo rapporto con questa realtà?
Li considero una finestra, non una casa. Ogni tanto la apro per ascoltare, raramente per condividere, ma poi torno al tavolo, al silenzio, dove le parole prendono davvero corpo.
La scrittura ha bisogno del buio: solo lì si vede la luce delle parole.
- Un’ultima domanda, ringraziandola per la sua disponibilità. Molti lettori l’hanno conosciuta e apprezzata con Il treno dei bambini, che ricordi ha di questa grande esperienza narrativa? E cosa ha provato nel vederne la trasposizione filmica?
Il treno dei bambini è una storia che mi ha attraversata come una corrente. Amerigo mi ha insegnato più di quanto io abbia insegnato a lui: mi ha mostrato che anche l’abbandono può essere una forma di amore, e che la memoria non è mai solo dolore, ma anche tenerezza.
Vedere il film è stato come vedere il sogno di qualcun altro che incontra il mio. E riconoscermi, nonostante lo sguardo sia diverso, mi ha dato la sensazione più bella che una scrittrice possa provare: che le storie, quando sono vere, non appartengono più a chi le ha scritte, ma a chi le ascolta.

Intervista di Enrico Spinelli
TANTA ANCORA VITA – Viola Ardone
OLIVA DENARO – Viola Ardone
IL TRENO DEI BAMBINI – Viola Ardone


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