
QUELLO CHE SO DI TE, di Nadia Terranova (Guanda – gennaio 2025)

Recensione 1
“In inverno, Messina ha il rumore tetro e insistente delle cose non dette, incastrate sulla bocca di chi non le pronuncerà mai: in Sicilia i fantasmi non se ne vanno, come i sentimenti più forti non lasciano più chi li ha provati una volta.”
Ogni famiglia ha almeno una storia tramandata a denti stretti, sibilata, sussurrata all’orecchio dei posteri perché non svanisca del tutto, mai dichiarata a voce alta perché nessuno si senta in diritto di parlarne, come si fa con le cose reali, con le cose vere.
La famiglia di Nadia non fa eccezione. Anzi, lei stessa sente i sussurri per anni, carpisce dettagli che annota nella mente, finché non arriva il momento di dar voce a questa storia. Dopotutto, è il fantasma che glielo chiede.
“Poco meno di cent’anni fa, è stata internata. La incontro spesso in sogno, la mia bisnonna: una donna minuta e silenziosa sulla soglia di un manicomio che sarebbe diventato un esilio, un luogo di cui avrebbe parlato con un distacco sempre più irreale fino a non nominarlo più, come accade ai ricordi che abbiamo sciupato. Il nome con cui la chiamo è Venera, l’accento sulla prima sillaba e la a finale, come una dea o un pianeta che hanno deciso di barare e cambiare le carte sulla tavola.”
Nadia Terranova è tornata con una storia generosamente intima, quasi mistica, in cui il suo diventare madre si lega e si annoda al suo essere prima di tutto figlia, nipote e pronipote. Una dimensione prevalentemente matrilineare in cui i destini di diverse generazioni di donne si susseguono e sopravvivono, per ragioni di ereditarietà e di sangue, e le cui storie giungono a lei in un viscerale sentire incontrollato, istintivo e spudorato.
Nadia si racconta, si sdoppia e si confonde con la sua bisnonna, Venera, fino a prestarle gli occhi e la voce. Così Venera, che la mitologia familiare descriveva virtuosamente silenziosa e discreta – mussu cuciutu – può parlare, forse per la prima volta, da dentro il Mandalari, del manicomio, dello smarrimento, della paura di non uscirne più.
Nadia indaga perché adesso è madre, e una madre non può impazzire.
“A legare la maternità al manicomio è il fatto che tutte e due interrompono il racconto convenzionale della vita.”
Una narrazione che sembra ancorarsi al passato e invece parla di universalità, di madri e di padri di ieri e di oggi, e seppure l’impronta femminista sia forte, lo sguardo volto al maschile è generoso e gentile, direi tenero, consapevole che i ruoli ingabbiano anche il più forte e le aspettative sociali sono catene che privano della libertà.
Nadia indaga il passato, sfida la mitologia familiare, dice ad alta voce quel che fino ad ora è stato solo sussurrato. Deve farlo, sparigliare le carte, restituire un po’ di verità a Venera, comprendere cosa realmente può essere accaduto. Deve farlo, deve poter dire a se stessa che a lei non accadrà.
“Non sento più nessun fruscio, è sparito anche l’ultimo rumore. Non vedo gli occhi di Venera, non sento la voce del granatiere. Un ultimo sguardo al disordine scassato di tutto quel vuoto e andrò via lasciando il pipistrello addormentato a testa in giù, le cartelle allagate dai temporali quando il vento spinge la pioggia dentro i vetri rotti.”
Ho trovato questo libro bellissimo dalla prima all’ultima pagina. Pieno di fragilità e bellezza, ma anche di forza e di quell’antica durezza che ha segnato per secoli la vita dei nostri antenati. Un libro ricco di senso delle radici e quindi pieno di Sicilia.
Molto ho immaginato, tanto ho ricordato grazie a Venera, delle vecchie storie tramandate in casa, di questa Sicilia antica e piena briglie. E mentre Nadia raccontava la sua storia io riscoprivo quella sopita dentro di me.
Magica Nadia
Recensione di Paola Greco
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Recensione 2
«A lungo il futuro è stato una saracinesca nera, la serranda abbassata oltre la quale non mi interessava sbirciare» , scrive Nadia Terranova in una delle pagine finali di questo libro bellissimo.
Per andare incontro a quel futuro, la voce narrante dovrà compiere un cammino a ritroso nel tempo fino al secolo scorso, all’origine di un male oscuro su cui non è mai stata fatta piena luce.
In una sorta di cortocircuito, ci troviamo al cospetto di cinque generazioni di donne, alla ricerca delle tracce di quel mistero antico e dei sintomi di quel male, dei suoi riflessi, della concreta possibilità che possa ripresentarsi nelle vite di chi resta.
«Scrivere è interrompere il non detto, o crearne uno nuovo… Scrivere è creare un incantesimo: se lo scrivo, accade. Scrivere è spezzare un incantesimo: se lo scrivo, non accade più».
Una storia dai molteplici volti e dalle molte voci, una figura geometrica (un “prisma” lo ha definito Romana Petri) che va completandosi un pezzo alla volta per mezzo di ricerche, indagini, interpretazione di sogni, studi filologici, memorie condivise e ricordi individuali.
“Mitologia familiare” è il nome che l’autrice dà al coro di voci (zie, perlopiù) custodi delle memorie di famiglia: un nome che da solo basterebbe a spiegare l’ampio spazio riservato in queste pagine al recupero di quelle memorie e quei racconti che costituiscono l’eredità più importante che ci si possa lasciare dietro di sé.
Solo guardando in faccia quel male antico, solo chiamandolo per nome, visitando i luoghi che lo hanno ospitato sarà possibile mettere insieme tutti i pezzi, tagliare quel “filo matrilineare” e rompere ogni possibile incantesimo, a beneficio delle future generazioni.
«La nascita di un’altra bambina, la mia, ha cambiato di nuovo il calendario. La saracinesca si è alzata, il cielo si è aperto e adesso il futuro è ovunque».
Nadia Terranova
“Quello che so di te”
Guanda editore.
Recensione di Valerio Scarcia
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