LA QUESTIONE DEI CAVALLI Arianna Ulian

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LA QUESTIONE DEI CAVALLI, di Arianna Ulian

Un giorno mi sono svegliata Momo. Per chi non lo sapesse ancora, Girolamo detto Momo, è il piccolo co-protagonista de «La questione dei cavalli» di Arianna Ulian, romanzo uscito da poco come prima opera della collana Fremen, diretta da Giulio Mozzi per l’editore Laurana di Milano. Arianna è un’amica. Sì. Meglio dirlo subito prima di ricevere qualche contestazione. A dirla per bene, spesso agli amici faccio il favore di non scrivere note ai loro libri che leggo. Ma quando mi capita di leggere libri di amici che tanto mi piacciono…

 

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Dicevo, un giorno, dopo averlo letto, mi sono svegliata Momo. Stavo dalla parte di qua a guardare con un binocolo i cavalli morenti. Sette cavalli isolati su un isolotto, come i sette miliardi che siamo sulla terra. Si disfacevano per colpa di figuranti nei panni sbagliati, gente che invece di fare quello che dovevano fare si distraevano, voltavano le spalle all’isola, si ubriacavano tra loro, e intanto i cavalli deperivano, e io guardavo e pensavo che non avevo potere, che anche se avessi gridato, oh! Vecchi sanpietrini sbeccati!, mo svegliatevi però perché quei cavalli stanno morendo e voi scartabellate scartoffie e roba burocratica e il tempo passa, e per tutti gli zoccoli incrostati, quanto siete stupidi, ed è possibile che animali così potenti e perfetti e dignitosi debbano restare proprio per la loro potenza irruente, là a morire per colpa di chi ne ignora quasi l’esistenza? E pensavo a tutto questo, mentre mi sistemavo un cappellino, e mi struggevo.

 

Un giorno mi sono svegliata Momo e quel giorno ho capito quanto mi era rimasta dentro quella storia, descritta con una lingua così potente.
Perché sì.
È un libro potente. Come le sette voci dei sette cavalli, tanto commoventi da reggere il tutto anche senza un niente.
È un libro in cui tutto quello che c’è, si vede. E ti resta dietro le palpebre, come restano dietro a quelle di Momo.
È un libro in cui le voci, comprese e soprattutto quelle dei cavalli, riescono a risultare distinte, pur mantenendo lo «stile» autoriale che si dà non solo in questo romanzo, ma nell’intera scrittura di Arianna Ulian, che negli anni si è affinata.
È un libro dove si mostra una Venezia, che non è quella Venezia là, quella delle riviste patinate. È la Venezia dell’attesa, di un cazzeggiare, di un mai partire, di un trattenere, e dove le «nuvole si muovono in branco galoppando nel cielo».
È un libro dove la chiarezza che viene fatta alla fine chiude il cerchio composto da un inizio «reale» che scivola verso l’evocazione narrativa, che non è finzione, ma forza di immaginario, per poi tornare alla realtà.
È un libro di cui alcuni faticano a riassumere la trama, ma dove alla fine quella sensazione di «sfuggevolezza» della storia rimanda al lettore la resa perfetta della “follia”.

 

 

È un libro molto cinematografico; come una storia che sottostà a una regia precisa, effetto creato alla visione ristretta su inquadrature che non permettono di guardare altrove, di distrarsi, e in questo modo l’autrice porta il lettore prima all’interno dell’assurdo, per poi ricondurlo fuori, ripuntando la camera sulla materia.
È un libro in cui si mostra la morte di alcuni cavalli, una morte che viene osservata dagli occhi di un bambino che sbircia da un binocolo, Momo; una morte che è mostrata in un modo tale da farmi ritrovare in Francia dietro l’obiettivo mentre fotografavo una corrida e non avevo capito che era fino alla morte; ho provato lo stesso dolore.

 

 

È un libro che nel mostrare queste morti ha il coraggio di fermarsi senza indugiare, di descrivere senza commentare, la testa che non si rialza, il nervosismo, l’accasciarsi, colpe attribuite, la gestione, gli abbandoni, i non accudimenti, la trasformazione da oggetti di curiosità macabra alla rimozione di ogni responsabilità. La malattia, i denti, lo sforzo per liberarsi invano dalla totale impotenza, ogni parte messa in giusto equilibrio, senza cedere alla moda, mantenendo una scrittura sincera, non forzata, non artificiosa.

È un libro che ti fa dire alla fine che è un lavoro compiuto, con molti più significati di quanti se ne possano intravvedere a una prima lettura, ma significati che non vengono imposti.
È un libro che mette in mostra:
– il mondo interiore di un bambino speciale, valorizzandolo;
– la Venezia scrostata e abusata persino violentata ma autentica nonostante lo sguardo di alcuni che la vivono e pure la abitano, indiani traditori, che sono i meno giustificati rispetto ai cowboy che vengono da fuori, a lasciare che Venezia si prostituisca suo malgrado; Venezia come un universo di genti attorno a un isolotto.
– l’orgoglio immorale dell’uomo nel dominio di una natura che viene così in verità brutalizzata, svilita e ridotta alla morte… e manco se ne assume la responsabilità;
– la questione familiare e le difficoltà di comunicazione quasi più serie tra adulti normodotati che non tra ragazzini diversi;
– l’assurdità di assimilare realtà altre, frutto di mascheramenti sociali, che alcuni confondono con la propria realtà;
– la forza evocativa che ha l’immaginazione nel bene e nel male ed è forse la parte meno evidente anche se pregnante.

 

 

È un libro d’esordio, ma non l’unico scritto, e mi auguro il primo di una lunga pubblicazione.
È un libro che a me pare davvero bello. Oltre che originale e attuale. Originale per la voce autoriale forte e musicale, per lo stile raffinato, e per l’idea di controllo linguistico che mette in pagina un sistema d’immagini legato al gruppo semantico del «cavallo». Attuale perché riesce a mostrare la decadenza del bello e del naturale, rinnovando interamente i luoghi comuni troppo consumati dei temi ambientalisti molto importanti di questi tempi, rimandando le colpe all’agire «folle» dell’uomo.

«Il pelato ha sistemato gli occhiali sopra il cranio, ride con gli occhi segnati da rughe profonde, il petto esposto, le mani ai lati dei fianchi».
«Momo chiude spesso gli occhi e guarda dentro la palpebra cosa è rimasto attaccato».
Nei commenti, una foto della citazione della voce dei cavalli.

Recensione di Manuela Mazzi

 

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