UN’ODISSEA. Un padre, un figlio e un’epopea, di Daniel Mendelssohn

UN’ODISSEA. Un padre, un figlio e un’epopea, di Daniel Mendelssohn (Einaudi)

Dubito fortemente che riuscirò a rendere anche solo una minima parte di quello che ho provato in questi giorni, mentre leggevo questo libro.

Dubito che qualcuno possa arrivare in fondo a questo lungo post.

Ma ci sono libri che ti aspettano. Ne sono certo. In qualche modo, senti che sono già parte di te, ancor prima che tu inizi a sfogliarli.

Sarà perché con il racconto delle gesta degli eroi ti ci addormentavi la notte, anche quando tuo padre era costretto a inventare, improvvisare, perché non ricordava esattamente come proseguisse il mito in questione.

Così ti ritrovi quarant’anni dopo, a tenere accesa la luce del comodino “solo altri dieci minuti”, a cercare di tenere aperti gli occhi il più possibile. O magari, ti alzi di scatto al mattino, perché un paio di ore prima di andare al lavoro te le puoi ritagliare.

Ci sono libri che annullano la distanza fra te un poema di oltre duemila anni fa. Ci sono autori che ti fanno sentire contemporaneo di eroi che hai conosciuto da bambino. Così assisti di persona alle imprese di Achille, o consoli il pianto degli eroi (“Le lacrime degli eroi”, per citare un libro di Matteo Nucci che hai amato come pochi altri in vita tua).

Sono quei libri che ti aiutano nella complicata ricerca di una profonda «comprensione delle facoltà intellettuali, sensuali e morali dell’uomo» (Mendelssohn).

Ascolti il racconto di Odisseo, dalla sua viva voce, come fossi seduto alla corte dei Feaci. Lui, “poeta della sua stessa vita”, è te che guarda. È a te che parla.

Pochi libri ti fanno alzare prima la mattina, ma in questo c’è un bel pezzo della tua vita. Perciò lo fai.

Il libro prende le mosse da un seminario sull’Odissea che Daniel Mendelssohn ha tenuto per i suoi studenti, una decina di anni fa.

L’inizio del seminario è stato preceduto da una bizzarra premessa: il padre del professore ha chiesto di partecipare.

E così ogni settimana, per la durata dell’intero corso, questo ottantunenne è uscito di casa per raggiungere – in macchina, le prime settimane, successivamente in treno – la casa di suo figlio per trascorrere insieme a lui la serata e la notte prima di ciascuna lezione, per essere così puntuale il mattino seguente all’inizio del seminario.

Esperienza molto simile è quella raccontata da Alessandro D’avenia nel suo recente libro “Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali“. Insegnante di Lettere, D’Avenia racconta le letture ad alta voce del testo effettuate insieme ai suoi studenti, pubblico e al tempo stesso attori dei ventiquattro libri del poema.

Eccoli dunque, Mendelssohn padre e figlio, in una classe di matricole di un college dello Stato di New York, a discutere di un poema che narra soprattutto di padri e figli. Il figlio ad insegnare, il padre ad ascoltare, prendere appunti, alzare la mano e intervenire.

Al termine del seminario, su suggerimento di una ex-docente di Daniel, i due hanno poi compiuto una crociera nel Mediterraneo sui luoghi dell’Odissea. Padre e figlio, per l’alto mare aperto. Ultima tappa del viaggio, Itaca.

Proprio come avviene nel poema omerico, iniziamo a girare in cerchio, pagina dopo pagina, attraverso quella particolare tecnica chiamata “composizione ad anello” – ossia quella tecnica che permette al racconto di «abbracciare il passato e il presente e a volte anche il futuro, perché alcuni anelli anticipano eventi che si verificheranno dopo la conclusione della storia principale». Esemplari, in questo senso, le pagine in cui il professore dedica una intera lezione all’episodio in cui la vecchia nutrice Euriclea riconosce la cicatrice di Odisseo. (Ed è ovviamente non casuale che il successivo libro di Mendelssohn, le vite di tre intellettuali raccontate con la medesima tecnica, si intitoli proprio “Tre anelli”).

E così anche noi giriamo in tondo, come il professore e la sua classe, o come in seguito farà la coppia padre-figlio, in crociera sui luoghi del poema: giriamo in tondo, fra le discussioni in aula, i dibattiti, le domande del professore, le risposte e i dubbi degli studenti, sempre più partecipi e conquistati. Giriamo in tondo, attraverso episodi della vita in casa Mendelssohn, l’infanzia di Daniel e dei suoi fratelli, alle prese con un padre severo, esigente, spesso assente, che poco dice e poco può raccontare del suo lavoro. Ogni episodio, ogni brano del poema, ogni tema analizzato in classe, è un giro di anello che abbraccia la vita di Daniel, dei suoi fratelli, dei suoi genitori.

In questo percorso circolare apprendiamo quanto sia importante, a volte, percorrere grandi distanze senza arrivare da nessuna parte. Girare in cerchio, appunto.

«Di cosa parliamo, quando parliamo di Odissea?»

Gli eredi di Carver mi perdoneranno, ma è davvero la domanda che sembra emergere con maggior vigore da queste pagine. Cosa stiamo leggendo? Di cosa stiamo parlando, mentre leggiamo l’Odissea?

Questo viaggio verso il cuore, verso il significato – i molti significati – del testo omerico (doppio viaggio, se si considerano il lavoro sul testo svolto in aula, poi il viaggio in nave verso quei luoghi) ci fornisce una moltitudine di interpretazioni, spunti, svolte, punti di vista: un serbatoio davvero impressionante di idee, suggestioni, osservazioni. Molti spunti sono forniti dal docente, intento a infondere la scintilla nei giovani allievi. Altre volte sono gli stessi allievi, in veri e propri sussulti di “feroce intelligenza”, a suggerire interessanti punti di vista, al punto che lo stesso Daniel arriverà in diverse occasioni a dire fra sé e sé: «Non ci avevo mai pensato».

Ma è soprattutto la storia di un padre e un figlio, questa Odissea di Mendelssohn. Una vicenda che riduce la distanza fra noi lettori e un poema scritto più di duemila anni fa, e mentre ciò accade, ci racconta di come la stessa distanza fra un padre e un figlio si sia a sua volta ridotta, proprio grazie a una doppia esperienza (il seminario, prima, il viaggio, poi) intorno agli oltre duemila versi del poema. Padre e figlio si ri-conoscono, verso la fine della vita dell’anziano padre, anche e soprattutto per merito dei 24 libri dell’Odissea.

«…e poi gli torna in mente il nome del soldato Homer, Homer Qualcosa, Homer come il poeta Omero che scrisse quella scena fra Odisseo e Telemaco, padre e figlio riuniti dopo tanti anni proprio come è successo a lui e suo padre, e il nome Homer gli fa pensare a ‘Home’, casa…» scrive nelle ultime pagine del suo “Sunset Park” Paul Auster, in quell’altro grande libro sui padri e figli, una delle tante “connessioni gravitazionali” (per usare un’espressione presa in prestito da Ernesto Ferrero) che la lettura di questa appassionante Odissea mendelssohniana mi ha suggerito.

Il tema del riconoscimento è certamente uno dei più ricorrenti nel poema omerico: basti pensare a quante volte Atena intervenga per mutare l’aspetto di Odisseo, aiutandolo così a mantenere segreta la propria identità. O si pensi allo stratagemma del nome “Nessuno” al cospetto del gigante Polifemo (lunghe, brillanti pagine sono dedicate da Mendelssohn proprio al tema del riconoscimento, l’ “Anagnōrisis”. Secondo Aristotele, l’Edipo Re è il modello ideale di tragedia perché riconoscimento e rovesciamento accadono simultaneamente, portando a compimento il destino di Edipo).

Proprio come Telemaco non ri-conosce suo padre alla fine del poema, Daniel si chiede chi sia quell’anziano signore che ha assistito alle sue lezioni. Sdraiato in un letto di ospedale, quest’uomo certo ha tutte le caratteristiche fisiche che il figlio conosce bene, «l’ovale giallastro, le orbite a mezzaluna degli occhi marroni enormemente infossati ora che aveva perso così tanto peso» (scena che ricorda quella fra il becchino e Amleto: «Questo cranio, signore, era la testa di Yorick, il buffone del re». «Questo?» «Proprio questo». «Fammi vedere. Ahimè, povero Yorick!»).

Daniel/Telemaco si mette sulle tracce del padre, interrogando zii e amici di gioventù perché qualcuno lo aiuti a rispondere alla domanda: “Chi era mio padre?”

Così l’educazione di un figlio che parte alla ricerca di notizie del padre (la “Telemachia”, ovvero i primi quattro libri del poema) diventano la ri-scoperta del proprio padre da parte di un uomo adulto, che si credeva Odisseo, ma che si rivela Telemaco. Analogamente, l’anziano padre siederà per sedici settimane in un banco di un’aula di college, a farsi istruire dal proprio figlio, nell’intento di completare lo studio dei poemi classici, interrotto molti anni prima.

È un continuo cambio di prospettiva, un gioco di ruoli, uno scambio, una crescita: «L’identità non è tanto una questione di contrapposizioni binarie, lo sprezzante o il gentile, il padre o il marito, il padre o il figlio, quanto di prospettiva caleidoscopica», scrive Mendelssohn.

Nel suo splendido “Geologia di un padre”, pubblicato una decina di anni fa, il poeta Valerio Magrelli aveva raccolto, su foglietti sparsi, appunti riguardanti il padre da poco scomparso. «Desiderio di rievocarlo: perché? Forse perché mi manco. È come se soffrissi per la mia morte […] Con la sua morte, è stata la nostra coppia a scomparire. Ormai siamo spaiati, definitivamente. Perciò, parlando di lui, passo dalla sua parte, gli giro dietro, gli vedo le carte, mi vedo al di là del tavolo da gioco, e scopro che per il suo sguardo io non esisto più. Morendo, lui ha perso suo figlio. Un nodo talmente complesso da non capire più a quale dei due capi ora mi trovi».

Altro esempio di mirabile cambio di prospettiva, incantesimo, è quanto scrive magistralmente Andrea Pomella a proposito del recente libro di Emanuele Trevi, “La casa del mago”, dedicato alla figura di Mario Trevi, illustre psicoanalista junghiano: «Ecco l’incantesimo che compie Trevi. Nel romanzo del padre sovverte l’ordine. Così il padre diventa il personaggio vivo della storia, mentre il figlio è l’anima trapassata che lo osserva oltre il velo dei morti».

Padri che diventano figli. Figli che diventano padri.

Il sottotitolo dell’Odissea di Mendelssohn è “Un padre, un figlio e un’epopea”, ma a me piace leggervi “due padri, due figli e un’epopea”.

Daniel Mendelssohn

“Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea”

Einaudi.

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