NIENTE E COSÌ SIA Oriana Fallaci

NIENTE E COSÌ SIA, di Oriana Fallaci (Rizzoli)

 

Niente e così sia o. Fallaci
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“Era entrata con piccoli passi esitanti, la prudenza dei bambini quando voglion qualcosa. Appoggiata ad una valigia, s’era messa a fissarmi dondolando un piede su e giù. Fuori era novembre, il vento invernale gelava i boschi della mia Toscana.
“È vero che parti?”
“Sì, Elisabetta.”
“Allora resto a dormire con te.”
Le avevo detto va bene, era corsa a prendere il pigiama e il suo libro dal titolo La vita delle piante, poi m’era venuta accanto nel letto: minuscola, indifesa, contenta. Fra qualche mese avrebbe compiuto i cinque anni. Tenendola stretta m’ero messa a leggerle il libro, d’un tratto m’aveva puntato gli occhi negli occhi e posto quella domanda.
“La vita, cos’è?”

 

 

La guerra del Vietnam raccontata, in tutta la sua atrocità e il suo nonsenso, da Oriana Fallaci, inviata a Saigon dal giornale
“L’Europeo” nell’autunno del 1967. Mossa dal desiderio di offrire a Elisabetta una risposta più credibile rispetto a quella data alla sorellina prima della partenza, la Fallaci, con la guida del ruvido, “virgiliano” collega e amico fraterno della France Press Francois Pelou, si immerge in pieno nell’ atmosfera surreale della capitale vietnamita, prima dell’ invasione del Tet, vivendo nello stesso tempo l’esperienza delle trincee e della giungla, dove i giovani soldati americani sono mandati a morire esattamente come- sull’altro fronte della guerra- i coetanei vietnamiti. L’autrice troverà la tanto agognata risposta non in Vietnam, ma in un altro insensato mattatoio, quello del Messico della dittatura, quando, per documentare le proteste studentesche contro le Olimpiadi, verrà gravemente ferita dai militari, che aprono il fuoco senza pietà contro i giovani manifestanti disarmati. Abbracciando tra le lacrime, in ospedale, uno dei ragazzi sopravvissuti alla strage, comporrà la nuova, dolente, amara preghiera che consegnerà a Elisabetta…

 

 

L’inferno della guerra del Vietnam: identico a ogni inferno che si apre sulla Terra quando gli uomini si scagliano, armi in pugno, contro i propri simili, su mandato di un Potere che usa cinicamente delle parole “ libertà”,“ giustizia”, “ democrazia” e “ popolo” sacrificando migliaia, spesso milioni, di creature inermi. Questo scempio di vite è lo scenario che quotidianamente si apre davanti allo sguardo della Fallaci, nel Vietnam dell’autunno del 1967, diventato una vera e propria morgue, nella quale i cadaveri sono gli unici, tragici balocchi per i bambini. Nessuno, in questa morgue, è innocente, da una parte e dall’altra: il libro ha come introduzione il racconto della strage di My Lay, villaggio vietnamita messo a ferro e fuoco dagli americani, una delle carneficine più atroci commesse dai Berretti verdi contro civili indifesi. Ma l’autrice intuisce presto che è impossibile piangere esclusivamente sui viet cong: davanti alla distruzione di cittadine come Hue’ o Dak To, davanti alle rappresaglie infinite che macchiano anche le mani e la coscienza dei vietnamiti, la Fallaci testimonia il suo sgomento e la sua confusione, la sua difficoltà, di fronte all’ orrore, di sentirsi parte del genere umano.
“Io sono qui per provare qualcosa in cui credo; che la guerra è inutile e sciocca, la più bestiale prova di idiozia della razza terrestre. Io sono qui per spiegare quanto è ipocrita il mondo che si esalta per un chirurgo che sostituisce un cuore con un altro cuore, e poi accetta che migliaia di creature giovani col cuore a posto, vengano mandati a morire, come vacche al macello, per la bandiera.”
E pensai che in quel momento, nel resto del mondo, la polemica infuriava sui trapianti del cuore: la gente nel resto del mondo si chiedeva se fosse lecito togliere il cuore a un malato con dieci minuti di respiro per darlo a un altro malato cui restano dieci mesi di vita, qui invece nessuno si chiedeva se fosse lecito togliere l’ intera esistenza a un intero popolo di creature giovani, sane, col cuore a posto.

 

 

 

Che senso ha salvare un pezzetto di intonaco, una persona che passerà il resto dei suoi giorni in un letto, quando si lascia distruggere tutta una città, assassinare tutta una generazione? Gli uomini sono pazzi Madame! Pazzi!”
In questa guerra esistono davvero i “buoni” e i “cattivi”? Perchè il crudele generale Loan, autore dell’uccisione a sangue freddo di un giovane vietcong disarmato, si rivela una creatura capace di piangere, e anche tra i soldati americani, tra gli “ invasori”, serpeggia forte la disillusione, rispetto agli ideali in nome dei quali si è stati mandati a combattere.
La guerra, se ha un merito, è quello di mettere spietatatamente di fronte alla propria vigliaccheria e fragilita: lo sperimenta l’autrice, quando deciderà di non adottare la piccola vietnamita dalla quale era rimasta colpita, durante una visita in un orfanotrofio del paese.
Ha senso che le migliori intelligenze del pianeta siano state radunate per organizzare lo sbarco sulla Luna, quando sulla Terra milioni di creature sono mandate a morire in conflitti sempre più cruenti e sempre più insensati?
Ho amato la luna, ho invidiato molto chi ci sarebbe andato. Ma ora che la guardo, così grigia e vuota e priva di bene, di male, di vita, già sfruttata per farci dimenticare le colpe, le infamie di qui, per distrarci da noi stessi, ricordo una frase che tu mi dicesti François: «La Luna è un sogno per chi non ha sogni». E preferisco questa palla verde e bianca e azzurra e brulicante di bene di male di vita che chiamiamo Terra. È una palla avvelenata, lo so: la vita, François, è una condanna a morte. Però hai ragione a non dirmelo. E proprio perché siamo condannati a morte bisogna attraversarla bene, riempirla senza sprecare un passo, senza addormentarci un secondo, senza temer di sbagliare, di romperci, noi che siamo uomini, né angeli, né bestie ma uomini.”
Si puo’ ancora o parlare di cristianesimo, di fede, di amore e di perdono, in quel mattatoio che continua ad essere il nostro pianeta? O non ha forse ragione chi, come la Fallaci, sente uscire dal suo cuore addolorato e rabbioso l’atroce “ Padre Nostro” nel quale afferma, davanti alle pile di cadaveri insanguinati, americani e vietnamiti, che l’insegnamento di Cristo non è servito a niente?
«La vita cos’è, Francois?»

«Non lo so. Ma a volte mi domando se non sia un palcoscenico dove ti buttano di prepotenza, e quando ti ci hanno buttato devi attraversarlo, e per attraversarlo ci sono tanti modi, quello dell’indiano, quello dell’americano, quello del vietcong…»
«E quando l’hai attraversato?»
«Quando l’hai attraversato, basta. Hai vissuto. Esci di scena e muori.»
«E se muori subito?»
«È lo stesso: il palcoscenico puoi attraversarlo più o meno alla svelta. Non conta il tempo che ci metti, conta il modo in cui lo attraversi. L’importante, quindi, è attraversarlo bene.»
«E cosa significa attraversarlo bene?»
«Significa non cadere nel buco del suggeritore. Significa battersi. Come un vietcong. Non lasciarsi sgozzare, non addormentarsi al sole, non paralizzarsi nella puntura, non chiacchierare e basta come fanno gli ipocriti e, tutto sommato, anche noi. Significa credere in qualcosa e battersi. Come un vietcong.»
«E se sbagli?»
«Pazienza. L’errore è sempre meglio del nulla.»
“Vieni qua Elisabetta, sorellina mia. Un giorno mi chiedesti cos’è la vita: vuoi ancora saperlo? «Sì, la vita cos’è?» «È una cosa da riempire bene, senza perdere tempo. Anche se a riempirla bene si rompe.» «E quando si è rotta?» «Non serve più a niente. Niente e così sia.»
E’ questa l’amara risposta che la Fallaci consegna alla sorellina, al suo ritorno a casa. Oggi, mentre infuriano altri, atroci, conflitti nel mondo, e la scienza- ironia della sorte- si organizza per andare su Marte, ennesimo “sogno per chi non ha sogni”, si avverte tutto lo sconforto provocato da queste parole. Insieme alla speranza che una breccia si apra in questo scenario desolante, e che il vivere e il morire, con tutto il loro carico di fatica, di gioia, di dolore, di passione, non siano destinati a finire inesorabilmente in quell’inaccettabile e insopportabile null

Recensione di Cristina Ghezzi

 

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