C’è chi lo adora e chi lo detesta: IL CASO ALASKA SANDERS Joël Dicker

C’è chi lo adora e chi lo detesta: IL CASO ALASKA SANDERS Joël Dicker

 

Ciao a tutti. Vengo oggi a parlarvi di questo libro che, come tutti i precedenti dello stesso autore, è divisivo come poche cose al mondo. Io lo adoro, ma per gli stessi motivi per cui IO lo adoro, un altro lettore potrebbe tranquillamente detestarlo. Per cui io dico che “è bellissimo”, ma non ho certo la pretesa di dire che la ragione è dalla mia parte, mi limito a cercare di farne una recensione il più possibile completa in modo che ognuno si possa formare la propria opinione.

Partendo quindi dal dato oggettivo, il romanzo è, come standard dell’autore, una mina da 600 pagine circa, diviso in sezioni, capitoli e sottocapitoli che NON sono in ordine cronologico e hanno stili di scrittura diversi in funzione di quello che stanno andando a raccontare.

L’origine di tutto è la morte di una bellissima ragazza, Alaska Sanders, il cui cadavere viene ritrovato a bordo di un lago. Questo, 11 anni prima di quando Marcus Goldman, l’alter ego di Dicker, scopre questo caso.

Come nel caso di Harry Quebert e dei Baltimore, cui questo romanzo fa continui riferimenti, la vicenda viene raccontata in prima persona dall’io narrante dell’autore, sotto le mentite spoglie del famoso scrittore Marcus Goldman che, nella finzione, è autore di Harry Quebert e di altri romanzi, e che per questo gioco di scatole cinesi all’inizio lascia un po’ disorientati.

Goldman/Dicker racconta quindi di come la sua vita non sia quell’apparenza dorata che tutti pensano, che non ha una donna che lo ami, e che comunque lui si sente sempre “orfano” di Harry Quebert che sappiamo (perlomeno da chi ha letto quel libro e anche altri), che è sparito dai suoi radar. Durante le sue peregrinazioni incontra nuovamente il poliziotto con cui aveva collaborato per risolvere proprio quel caso e, per una lunga serie di ragioni, si ritrova a scoprire il caso di Alaska Sanders.

Ve lo dico subito: seguire, perlomeno all’inizio, i frequentissimi salti spaziotemporali che oscillano fra il momento in cui lui racconta quello che succede, quello che successe allora, e quello che portò a quello che successe, è una bella impresa. Ma di grande soddisfazione una volta che ci si impadronisce del meccanismo.

Per lo stesso motivo, e qui sento già gli strepiti dei detrattori “ah, ripete sempre le stesse cose”, ecco… ripete spesso le stesse cose. Però, con un gioco di dettagli, lo stesso evento è raccontato una volta prima, una volta dopo, una volta durante ma dal punto di vista di un altro personaggio, e così via.

Con l’evolversi delle indagini, nelle quali Dicker si diletta a portare il lettore in una direzione prima e nell’altra dopo, per fargli scoprire che nessuna delle due è quella esatta, si viene a scoprire una serie di cose, su cui non faccio spoiler, ma che lasciano sempre l’amaro in bocca alla fine. D’altra parte, se ben guardiamo, anche Harry Quebert, I Baltimore, Stephanie Mailer o la Camera 622 erano delle “tragedie a fuoco lento”, e questo non fa differenza.

Una piccola differenza l’ho trovata. In questo romanzo, che comunque giova ricordare che è strettamente interconnesso con gli altri, sebbene non serva averli letti, Dicker deve aver dato retta ad alcune critiche sulla presenza della madre impicciona e dell’editore scassaballe. Non ha fatto sparire del tutto quei personaggi, ma li ha fortemente ridimensionati.

Per il resto ho ritrovato in tutto il suo splendore le sue divagazioni, il suo calare il lettore nell’ambiente con i salti spaziotempo, le sue massime filosofiche con relative obiezioni.

Insomma, per chi lo conosce già e lo ama, questo libro sarà una bellissima passeggiata (anche se sono 600 pagine scorre che è una bellezza). Chi lo conosce già e lo odia, può non comprarlo o, se l’ha ricevuto in regalo, può a sua volta riciclarlo dandosi un tono dicendo “mi hanno detto che è bellissimo…”

A chi invece non lo conosce e vuole affrontare la lettura senza pregiudizi, posso solo dire che, almeno all’inizio è abbastanza difficile “stargli dietro” a causa di tutti i salti avanti e indietro negli anni e nei luoghi, e che ha un suo peculiare modo di scrittura che, come detto all’inizio, non lascia molto margine di manovra ai compromessi: o piace, e lo si ama, o non piace, e lo si odia. Suggerisco caldamente, in questo secondo caso, di mollare il colpo e passare ad altro. “La lettura è un piacere, se non è buona, che piacere è?” direbbe un vecchio Nino Manfredi (sì, vabbè, era a proposito del caffè, ma avete capito il senso della citazione).

Voto: 9

Recensione di Mitia Bertani

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