IL LIBRO DEL MESE: DONNE DI TIPO 1, di Roberta Casasole (Feltrinelli – luglio 2024)
Giovanna Giò aveva diciassette anni quando, dopo una notte passata a leggere “La strada per Los Angeles”, la J. di John Fante le si pianta come un pugnale tra nome e cognome. Per cui e per sempre sarà Giovanna J. Giò.
Ora qualsiasi manuale del buon recensore prevede la sinossi. Dopo avervi detto che la migliore è quella della casa editrice (Feltrinelli), riassumo in maniera non ortodossa impastando la trama con i miei commenti, perché il tratto davvero caratterizzante questo romanzo è il linguaggio più che la storia, insomma il “come” quanto e più del “cosa”.
Giovanna è una dottoranda molto consapevole di sé che ritiene che l’Università dovrebbe affidarle immediatamente la cattedra di letteratura come professore ordinario. Anche se non ha neanche terminato il dottorato e, per verità, neanche la relativa tesi per la quale in due anni ha messo insieme solo un titolo, che ritiene troppo lungo, e tre dediche alternative delle quali, comunque, non è soddisfatta. Ma tant’è: lei ha letto e riletto Fante, è l’unica che l’ha capito fino in fondo, è la sola e unica a poter scrivere alla Fante. E lo farà: s’inventerà un racconto d’esordio di John (“Il cagnolino rise”), scrivendo un saggio di presentazione che l’inconsapevole titolare di cattedra professor Mazzetti (mediocre, ignorante e vanesio) presenterà in un convegno; spera di esporlo così alla pubblica gogna e di provocarne la defenestrazione. Le cose andranno diversamente. L’operazione passerà per un intelligente modo alternativo di far entrare il pubblico dei lettori nella poetica di Fante: proporre un saggio su un racconto che non esiste è in linea con lo spirito di quello scrittore!
Giovanna è di appetitosa bellezza ma terribile, spietata, caustica fino all’ustione di terzo grado dell’interlocutore in ogni scambio verbale; perché è una donna di tipo 1. Cioè, affetta dalla SPP Sindrome Premestruale Permanente (SPP) nella forma più grave e per la quale pretende dall’INPS riconoscimento ufficiale di stato invalidante, con annesse prestazioni economiche e sociosanitarie.
Alla fine, desisterà da entrambi gli obiettivi proprio nel momento in cui si aprivano concrete possibilità: sia per la titolarità della cattedra per sopravvenuto familismo (non voglio svelarvi di più) sia il riconoscimento della patologia da parte dell’INPS per progressiva allarmante conversione di un dirigente condizionato da sopravvenute esperienze socio-familiari. L’apocalittica Giovanna lascerà che a contendersi quella cattedra siano gli integrati e rifiuterà sdegnosamente il cambio d’atteggiamento dell’Istituto di previdenza, i cui archivi aveva intasato per anni con le sue vibranti raccomandate.
DALL’UNIVERSITÀ ALLA VITA DEI CAMPI
La SPP la rende perfida, ma in maniera accattivante per l’uso rutilante del linguaggio con il quale massacra qualsiasi interlocutore grazie a una morfosintassi contundente e una proprietà espressiva luciferina. Indimenticabile lo scontro con l’attonito Rettore Bonomi; come pure quello con Nicole, una fragile biondina classificata tra le donne di tipo 3, cioè quelle ben disposte nei riguardi degli uomini per via di estrogeni euforici. Nicole va in giro vestita da contadina del settecento per “recuperare il rapporto con la natura”. “Seppellisciti viva allora: è il sistema migliore” le consiglia Giovanna, disponibilissima ad aiutarla a scavarsi la fossa per ricongiungersi così, nella maniera più totale e definitiva, con la madre terra.
Abbandonata l’Università, G.J. Giò sposterà il suo raggio d’azione, sempre apocalittico nei toni e nei comportamenti, sulla gestione dell’eredità del non amato padre che, da perfetto impiegato di banca, ha sempre considerata quella figlia il suo investimento più infruttifero: un capitale sprecato, un crac finanziario, una disgrazia. Ma da gestire c’è solo un terreno e un vecchio caseggiato perché della liquidità si è impadronita la madre Ersilia che, vedova non inconsolabile, ha investito tutto in una lunghissima crociera ‘all inclusive’, compreso un assistente di bordo personale. Ma prima di andarsene tiene a precisare alla figlia che la povertà che le lascia è un regalo e come tale deve viverlo.
E tale si rivelerà con l’aiuto di Corrado, straordinario personaggio che parla un po’ per adagi popolari e molto per radicati convincimenti personali spesso espressi con così grande efficacia da far ritenere inutile il sostegno grammaticale e sintattico. Corrado è la coprotagonista: non ho sbagliato l’accordo perché Corrado è una donna. Coprotagonista della seconda parte del romanzo nella quale la seducente Giovanna scoprirà che le mode, le manie, i falsi miti, l’esoterismo superficiale, il salutismo spicciolo, l’eco spiritualità dozzinale dei dannati dei device, trai quali spiccano le donne di tipo 2 e 3, possono diventare non solo il bersaglio delle sue irresistibili intemerate psico-sociologiche ma possono essere fonte di sopravvivenza e addirittura di guadagno.
Potrà così dedicarsi alla lettura della sua amata letteratura americana mentre torme di disadattati digitali la pagheranno pur di poter lavorare gratis per lei.
Questo è un libro con una straordinaria galleria dei personaggi: dalla cartomante al collaboratore di cattedra ipersfruttato passando per un bambino selvatico e geniale e uno spasimante demenziale. Tutti paradossali e nello stesso tempo veri. Libro che va letto dalla prima all’ultima pagina: alla lettera, cioè tutto quello che è compreso tra la prima e la quarta di copertina e le copertine stesse. Scoprirete così, a esempio, che “ogni riferimento a cose, persone, scrittori, fiori, ortaggi, città ed enti pubblici è puramente mestruale”, come pure sarete edotti della bibliografia minima che dovete aver letto per non rischiare di attivare i livelli più alti di SPP in Giovanna J. Giò. Anche i ringraziamenti non sono rituali perché individuano motivatamente i corresponsabili, in diverso modo e misura, della pubblicazione del libro.
E a questo punto s’impone una dichiarazione: questa recensione, o meglio il mio parere, è oggettivamente di parte. Conosco l’autrice, Roberta Casasole, da circa 20 anni: prima come allieva di un master del quale ero tra i docenti e poi come tirocinante presso l’azienda dove svolgevo la funzione di Responsabile della Comunicazione. Inoltre, in comune abbiamo Bolsena: lei per nascita e per scelta, io solo per scelta elettiva. A Roberta devo, tra l’altro, oltre che una reinterpretazione ironica e sdrammatizzante di eventi della mia vita, la migliore definizione del ruolo del comunicatore: “un narratore in ascolto”. Definizione perfetta e irrinunciabile.
E da venti anni che faccio il tifo per lei: cioè da vent’anni mi chiedo quanto ci avrebbero messo gli editori ad accorgersi di un talento del genere. Era ora, Feltrinelli! Tutti gli altri se ne pentiranno.
Recensione di Marco Stancati
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