PREMIO PULITZER 1967: L’UOMO DI KIEV, di Bernard Malamud (Minimum Fax)
Alcune volte i libri scelgono noi mentre altre volte siamo noi a muoverci verso di loro.
A me piace accumulare libri e fumetti e poi aspettare che questi “mi chiamino”.
Con L’uomo di Kiev non ho rispettato questa regola ed è probabilmente per questo motivo che ho patito la sua lettura, faticando a leggere le 400 pagine e chiedendomi alla fine se fossi “inadeguato” per comprendere la complessità del messaggio di Malamud.
Partiamo dal titolo: la scelta della traduzione italiana non mi convince rispetto all’originale “The Fixer”, perché la storia, pur essendo ambienta nell’attuale Ucraina, ma all’inizio del secolo scorso, ha un’ambientazione universale, aree di segregazione fisica, lasciando Kiev ai margini della descrizione.
Riprendendo un fatto storico realmente accaduto, l’autore rielabora le vicissitudini di un uomo semplice, un tuttofare ateo ma ebreo di nascita, che, tentando la fortuna, lascia il proprio villaggio ed il proprio passato di frustrazioni e tristezze per tentare la fortuna in città.
Inizialmente troverà soddisfazione, andando a vivere e lavorare in una zona vietata agli ebrei, uscendo dalla prima area di segregazione, ma sentirà sin dall’inizio il peso della propria menzogna.
Infatti, poco dopo, la sventura si abbatterà su di lui, portandolo in un vortice Kafkiano dove le vessazioni non avranno mai fine, metafora delle relative persecuzioni che la popolazione ebrea subì nel periodo dello zar Nicola II e che di lì a poco sfoceranno nella follia nazista.
La gran parte del libro si sviluppa all’Interno del carcere, seconda e definitiva area di segregazione, dove Yakov è costretto a passare la propria vita in attesa di un atto d’accusa, che mai arriva. La maestria di Malamud è tutta nel mantenere la tensione in un lento fluire di piccoli gesti ripetitivi del protagonista, segnati dai momenti di sonno, sogno, incubo, delirio
Recensione di Cosimo Laserra
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