IL CORPO UMANO Paolo Giordano

IL CORPO UMANO, di Paolo Giordano

 

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E bravo il nostro Paolo Giordano. Ha svolto il compitino da primo della classe. Ha rispettato tutte le regole della buona scrittura: fluidità, ponderatezza. Le parole ben cesellate sembrano rispettare una sequenza matematica.

Del resto nel sopravvalutato “La solitudine dei numeri primi” aveva già fatto sfoggio del suo punto di forza – la scrittura, appunto – che è riuscita ad appannare i suoi affezionati lettori poiché questa ha superato con abilità ogni forma di trama anche quella più inconsistente. Capacità in cui in c’è nulla da eccepire. Ma se ne “La solitudine dei numeri primi” l’abilità ha salvato il contenuto, ne “Il corpo umano” questa non è stata sufficiente.

 

 

I contenuti risultano piatti e banali, rigidamente precostituiti, un agglomerato di cliché e luoghi comuni da caserma (il ragazzino verginella, il macho odioso, il medico superficiale e tormentato che sfugge da un passato difficile, il gigolò, il grassone vittima predestinata di scherzi e cattiverie, per non parlare della ragazza mascolina: un manipolo di soldati che parte in missione per l’Afghanistan e sembra piuttosto una banda di liceali in gita scolastica, inesperti, imbranati, preda del panico in ogni situazione).

Un Insegnante d’italiano intransigente alle regole, irriducibilmente ancorato alle norme di buona scrittura sicuramente darebbe un ottimo giudizio al “piccolo”, presuntuoso, secchione Paolo Giordano, rispettoso nell’eseguire lo svolgimento senza uscire fuori tema, senza eccessi e sbavature.
Io, da lettrice, No.

 

 

I suoi giovani soldatini si muovono “educatamente” in un percorso precostituito, già battuto e, sebbene in alcuni passaggi si apprezzi lo sforzo nel tentativo di andare oltre i confini del banale, le barriere non cedono: pathos zero, quid zero, profondità e intensiva zero, originalità non pervenuta.

La bella scrittura non ha salvato il contenuto.  Paolo Giordano non è riuscito a entrare nei personaggi da lui stesso creati, non è riuscito a trasmettere l’intensità dei singoli e risulta evidente la forzatura che attua per la mancanza di un’esperienza diretta. Non è una scrittura cruda alla Bukowshi, è una scrittura studiata a tavolino.

Voleva far vibrare il corpo in tutte le due manifestazioni umane, dare voce al sangue, fare urlare i muscoli, rumore alle ossa nel doloroso passaggio di quell’invisibile linea che separa la giovinezza dall’età adulta in periodo di perenne guerra.

 

 

Ma perché ha usato una missione in Afghanistan?  Perché? Il tema è abbastanza forte e complicato e la sua scrittura, purtroppo, non fa leva su ciò che non si è vissuto direttamente.

Ha partorito burattini senza fili. Tanti scialbi “Pinocchio” che sulla carta rimarranno per sempre rigidi ceppi di legno.
Un romanzo, prevedibile dall’inizio alla fine, che stenta a farsi ricordare. E per i temi trattati doveva, invece, provocare forti scosse, brividi sottocutanei, rivoltamenti di budella, riflessioni a occhi aperti. E invece il nulla. Mera esercitazione di lettura.

In definitiva un romanzo adatto per acerbi, giovani lettori non certo per chi ha un’età in cui di battaglie ne ha vissute molte e che continuamente sente parlare di assuefatte guerre inconcludenti e senza fine
Peccato, un vero peccato.

“Non funziona così per tutti, pensa Egitto, l’albero della conoscenza produce anche frutti rachitici e aspri. Rimase in silenzio.”

Recensione di Patrizia Zara
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