L’INVERNO DEL NOSTRO SCONTENTO, di John Steinbeck
“Ora l’inverno del nostro scontento
è reso estate gloriosa da questo sole di York,
e tutte le nuvole che incombevano minacciose
sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano”.
Riccardo III, William Shakespeare.
Ammetto di aver faticato un po’, all’inizio, a entrare nello spirito di questo romanzo. Probabilmente speravo di trovarvi lo Steinbeck dei capolavori, di Furore e della Valle dell’Eden o del prezioso Uomini e Topi, e ho scoperto invece uno Steinbeck diverso, più algido e ermetico ma sorprendentemente capace di lasciare, ancora una volta, un segno importante. Se infatti una caratteristica dei suoi romanzi è la capacità di mediare tramite storie circostanziate temi universali, questo romanzo ne è la piena dimostrazione.
Al centro della storia è Ethan Hawley, rampollo a Long Island, New York, di un’antica famiglia di balenieri fallita e adesso commesso di un negozio di alimentari un tempo a essa appartenuto. Ethan è un uomo onesto, irreprensibile, profondamente innamorato della moglie, che coccola e riempie di nomignoli affettuosi, e dei due figli. Ma le richieste pressanti della middle class, che nell’America degli anni ’60 sfoggia il progresso a furia di elettrodomestici all’ultima moda, e il conflitto vissuto personalmente tra la modestia del proprio impiego e la nomea della propria casata, ridotta a un insieme di retaggi e reliquie esposte in vetrina, lo porteranno pian e piano e inesorabilmente verso un importante ripensamento interiore, dettato da sensazioni interiori e pressioni esterne di cui è intessuta tutta la prima parte del romanzo.
La trama tuttavia è davvero un pretesto per riflessioni che si fanno sempre più intense e trasversali a ogni luogo o tempo contingenti: qui è un commesso a sentirsi via via bloccato dalla responsabilità di riempire le pance e di vestire i corpi della sua famiglia, ingabbiato da abitudini e atteggiamenti fino a poco prima ritenuti morali, anzi, virtuosi. E se per Ethan come per chiunque non si trattasse di virtù, ma di pigrizia morale, visto che per qualsiasi successo ci vuole audacia? E se a far diversamente è invece la maggior parte della gente, che consegue successo e cioè, sostanzialmente, denaro, spesso per vie discutibili ma avvolta per lo più in un’aura di rispettabilità e di quieto benessere?
Queste sono le riflessioni che si avviluppano nella mente di Ethan, con una capacità di penetrazione psicologica degna del miglior Steinbeck:” E se io dovessi metter da parte le norme, per qualche tempo, so che dopo ne porterei le cicatrici, ma non sarebbero peggiori delle cicatrici che stavo portando, le cicatrici del fallimento? Vivere vuol dire portare una cicatrice. Tutti questi pensieri eran come la banderuola in cima all’edificio del disagio e dello scontento…Forse era questa l’unica ragione per cui avveniva in me il cambiamento. Io non voglio, non ho mai voluto, il denaro in sé. Ma il denaro è necessario per conservare il mio posto in una categoria a cui sono abituato, e in cui mi trovo bene “.
È grande l’interrogativo che suscita questo romanzo: quanto il successo ha a che fare con la moralità? Fin dove ci si può spingere per non superare la soglia di ciò che è virtuoso, e perché non conti più cosa si fa ma come lo si fa e come lo si chiama? E l’uomo moderno, quello che sa sparare razzi nello spazio, riesce a guarire l’ira e lo scontento se non dandogli sfogo? E a quale prezzo? La seconda parte del romanzo è un susseguirsi di azioni che mostrano la metamorfosi di Ethan, il passaggio da uomo perbene a uomo di successo ma, sembra stuzzicarci ancora una volta Steinbeck, l’orizzonte delle attese altrui è sempre conciliabile con la nostra natura e con l’essenza di ciò che realmente nutre i pensieri dei nostri giorni e delle nostre notti?
Un romanzo che parte in sordina ma che acquisisce sempre più forza, crudezza, verità, disvelando un tema caro a Steinbeck, l’eterna lotta tra il bene e il male e il ruolo che riesce a giocarvi l’uomo con la sua libertà di scelta.
“Timshel”, ‘tu puoi’, diceva Lee, il servitore cinese de “La valle dell’Eden”, e quanto avrei voluto che anche Ethan ne sentisse la voce!
Commenta per primo