LA VALLE DELL’EDEN John Steinbeck.

La valle dell'Eden

LA VALLE DELL’EDEN, di John Steinbeck

“Abbiamo solo una storia. Tutti i romanzi, tutta la poesia, si reggono sull’infinita lotta, in noi, tra bene e male. E penso che il male debba essere continuamente ritessuto, mentre il bene, la virtù, sono immortali. Il vizio ha un volto nuovo, giovane e fresco, mentre la virtù è vulnerabile più di ogni altra cosa al mondo”.

 

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Ci sono libri che hanno il potere di lasciarti diversa da come ti hanno trovata, facendoti percepire quanto labile sia il confine tra letteratura e vita. Questo libro ti prende per mano e ti accompagna lungo un viaggio che attraversa l’universo più affascinante, insondabile e complesso fra tutti: l’animo umano.

In un nuovo Eden e sulla scia di un episodio biblico, l’uccisione di Abele da parte di Caino, si dispiegano le vicende di due famiglie, gli Hamilton, sventurati ma saggi e felici e i Trask, ricchi ma inesorabilmente dannati. Sul loro cammino a un certo punto irrompe l’anima nera di Cathy Ames, novella Eva, e il saggio cinese Lee, incarnazione di una morale che sia ligia al vero, ancor prima che all’ideale.

 

 

Ma la trama, difficile da sintetizzare in poche parole, è solo il pretesto per una riflessione infinita e avvincente, cruda e a tratti struggente, sull’inalienabile esigenza dell’essere umano di amare ed essere amato, di fronte alla quale ogni confine rigido tra bene e male diventa incerto; a questa verità, che si svela sempre più fortemente nel corso della narrazione, non sfugge niente e nessuno, non il rapporto di reciproca aspettativa tra padri e figli, non la presunta complicità/rivalità tra fratelli, non le apparenti certezze di chi è convinto di aver trovato un posto sicuro nel mondo, non le pretese di compensazione o risarcimento di chi vaga fin da sempre incerto in una logorante inquietudine.

 

 

Si salva solo chi si interroga continuamente su se stesso e nello sforzo di trovare delle risposte accetta la propria umanità, proprio come fanno Samuel Hamilton e Abra Bacon, due personaggi che trovo in tal senso positivi e forieri di speranza.

Ma la presenza più bella è proprio quella di Lee, il servitore cinese che a un certo punto diventerà un punto di riferimento prezioso per tutti i protagonisti e per il lettore stesso, portavoce di una morale che non è deterministica, che accarezza l’uomo, lo consola, gli offre uno spiraglio facendoglielo scorgere nella possibilità di una pietas verso se stesso:

“E senti di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dei. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo. Una cosa sempre attaccata e mai distrutta, perché ‘tu puoi’ “.

 

 

‘Timshel’, tu puoi, è questa la parola focale di tutto il romanzo, la possibilità per l’uomo di scegliere, di salvarsi, di redimersi, superando qualunque “debolezza, codardia o pigrizia”.

‘Timshel’, che assesta il suo colpo di grazia dopo Furore facendomi amare ancora di più Steinbeck.
Ho un solo rammarico, non averlo letto prima ed essermi persa così tanta grazia.

Recensione di Magda Lo Iacono

 

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