SI PUÒ PARAGONARE I TRE MOSCHETTIERI A TEX, IL PIÙ NOTO DEI FUMETTI ITALIANI ?
“Vent’anni dopo: un parallelo fumettistico”
La lettura di “Vent’anni dopo” (opera del 1845 di Alexandre Dumas, forse meno esplorata dal pubblico, ma di notevole pregio, e appassionante come le sue storie più conosciute) conferma in modo evidente un accostamento curioso fra due dimensioni narrative diverse, eppure anche accomunate da fili sotterranei di dialogo creativo: quella romanzesca e quella dei fumetti.
In particolare, si impone il tributo di ispirazione che un fumetto italiano molto popolare, Tex Willer, deve al suo ottocentesco predecessore francese.
Non è un mistero che Gianluigi Bonelli (1908-2001), inventore del personaggio di Tex, fosse un lettore devoto dei tre moschettieri e ammiratore profondo dell’opera dumasiana.
Ma nondimeno stupisce come dal materiale “cappa e spada” originario, la sensibilità del bravo fumettista milanese sia riuscita a estrarre un “distillato western” di così longevo gradimento.
Chi si è appassionato sia ai moschettieri, sia a Tex, non potrà fare a meno di notare che “l’affetto da lettore” da entrambi suscitato, ha un sapore del tutto peculiare e ricco di forti somiglianze.
Questo affetto si forma innanzitutto attorno alle figure dei due quartetti di protagonisti di ognuna delle vicende narrate.
Sia in Dumas, sia in Tex Willer, possiamo considerare come personaggio principale la fusione delle differenti personalità di ciascun eroe, in un unico carattere ideale.
In “Vent’anni dopo”, e prima ancora naturalmente nei “Tre moschettieri” (i quali, con uno dei più begli equivoci della letteratura, sono quattro), il protagonista è una persona unica formata da uno straordinario poker di singoli uomini: Athos-Aramis-D’Artagnan-Porthos.
In Tex Willer, succede qualcosa di simile. Pur non comparendo sempre in contemporanea nelle varie avventure (e lo stesso vale per i moschettieri), anche qui il protagonista è uno, ma suddiviso in quattro: Tex-Carson-Kit-Tiger.
L’abilità e l’arguzia narrativa del Bonelli fumettista danno il meglio di sé nella scelta di prendere molte delle qualità di ciascun moschettiere, e ridistribuirle con “cocktail caratteriali” variabili nei suoi quattro eroi del West.
Considerando questi due mondi paralleli della creatività da un punto di vista della pura arte narrativa, il motivo di ammirazione da cui si viene colti ha un proprio valore in entrambe le direzioni.
Dumas aveva già anticipato l’energia espressiva del fumetto nella sua essenza, pur affidando ancora tutto il “disegno” del racconto al portento immaginativo della parola “nuda”.
Lo scrivere di Dumas è senz’altro paragonabile a un disegnare con le parole. Se come autore, lo si debba catalogare nella schiera degli artisti, oppure fra gli artigiani, è questione controversa da lasciare in sospeso per dibattiti di più ampio respiro critico.
Ciò che non si può negare è che, fra i grandi della letteratura, Dumas sia stato uno degli scrittori più legati alla dimensione “visiva”. Le sue descrizioni delle scene sono snelle, veloci, essenziali. Nonostante questo, non mancano di completezza, vivacità, evidenza, efficacia, con anche tocchi di eleganza e coloritura.
Soprattutto interessante nel nostro discorso: il modo stesso in cui Dumas fa immaginare le scene al lettore, si dipana per “pacchetti di immagini”, come in una sequenza di tavole curate da un buon disegnatore di fumetti.
Gianluigi Bonelli, in Tex, ha assorbito il nucleo puro di quel modo di raccontare, e ne ha ricavato una variazione sul tema capace di vestirsi di una propria dignità di opera autonoma e originale.
In particolare, come accennato, c’è un po’ di “Athos-Aramis-D’Artagnan-Porthos” in ognuno dei protagonisti della sua avventura western, dosati in parti sapienti, in modo da non lasciare intendere una banale trasposizione (se non una addirittura una copiatura maldestra), bensì una raffinata reinterpretazione di ammirevole qualità.
Tex Willer, personaggio da cui la serie a fumetti prende il nome, presenta molti aspetti del D’Artagnan maturo (quello incontrato in “Vent’anni dopo”): ha una sicurezza in sé incrollabile, sangue freddo da vendere, sa escogitare sempre il piano o gli stratagemmi adatti per uscire al meglio dalle situazioni pericolose, è astuto, fiero, esperto in ogni tipo di duello col nemico (dove la pistola sostituisce la spada), rappresenta l’animo leader del gruppo.
Allo stesso tempo, nella persona di Tex ci sono anche la forza erculea di Porthos e la nobiltà generosa dei modi di Athos.
Kit Carson, fedele compare di avventura di Tex, è invece la sua spalla perfetta anche per quanto riguarda quell’atmosfera di complice ironia che spesso passa fra i due amici e attraversa i loro dialoghi.
In questo senso Carson è molto debitore al Porthos di Dumas, il più genuino e diretto fra i caratteri dei moschettieri, spesso anche preoccupato di cosa si può mettere in pancia tra un missione pericolosa e l’altra, vezzo goliardico che il sodale di Tex declina a modo suo in una frequente richiesta di bistecche alte due dita sommerse da montagne di patatine, ad ogni sosta nei polverosi saloon in cui il loro eroico peregrinare li conduce.
Tex e Carson sono poi due agenti effettivi in forza al corpo dei Rangers del Texas, elemento di somiglianza questo che rimanda ai moschettieri del re: si muovono nel nome di una “entità ufficiale” superiore, ma i loro metodi all’occorrenza tralasciano l’ortodossia dei comportamenti e dei regolamenti, per ottenere i risultati spiccioli richiesti dalle circostanze.
Tex e Carson si trovano così spesso al servizio delle autorità, ma sono guidati in primo luogo dal proprio superiore senso della giustizia, e non esitano ad andare contro ai potenti, quando questi si rivelano ambigui, subdoli o non affidabili fino in fondo (caratteri negativi, il cui prototipo ideale è impersonato dalla viscida figura del cardinale Mazzarino, sempre in “Vent’anni dopo”, oppure in Tex, da ufficiali dell’esercito corrotti, agenti di riserve indiane fraudolenti, sceriffi prezzolati al soldo del cattivone di turno, e così via).
In Kit Willer (figlio di Tex) si condensano invece tutta la spavalderia, la baldanza e l’avventatezza del D’Artagnan giovane, mentre nel quarto componente della compagnia, l’indiano Navajo Tiger Jack, troviamo i tratti ieratici e misteriosi di Aramis, il più sfuggente e affascinante dei moschettieri.
La banda di Tex, come quella dei moschettieri, parteggia naturalmente sempre per i più deboli.
Con un paragone un po’ vago, ma non del tutto privo di una sua consistenza sul piano dei meccanismi narrativi in gioco, gli indiani, per i cui diritti spesso Tex non risparmia le sue eroiche energie, si possono assimilare al popolo in rivolta contro la prepotenza nobiliare, in particolare nei moti pre-rivoluzionari raccontati proprio in “Vent’anni dopo”.
C’è tutto un lussureggiante sottobosco di liane sottili insomma che tiene stretti il mondo dei moschettieri e quello di Tex. Dumas è stato il precursore, e il ranger del Texas suo degno erede.
Ma entrambi hanno a loro modo manifestato uno dei più grandi “misteri alla luce del sole” che molto spesso attraversano la dimensione così sottile e sfuggente dell’arte del narrare.
Ossia, come possa esser stato possibile che elementi del racconto così essenziali e basilari, al limite della semplicità estrema (quali sono quelli che fanno da struttura portante sia a Tex, sia all’epopea dei moschettieri), siano stati in grado sprigionare un fascino così duraturo nel tempo e inossidabile per generazioni appassionate di lettori.
Inventare una storia, è forse impresa alla portata di tutti. Farlo con straordinaria efficacia, rimane un enigma per cui non esiste ricetta descrivibile a parole.
Recensione di Angelo Gil Balocchi
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