DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA, di Georges Bernanos
Recensione 1
Un giovane prete riceve l’incarico di guidare una parrocchia di campagna, dove viene accolto con freddezza, nonostante siano evidenti il suo impegno e la sua sensibilità nei confronti del prossimo.
Colpito, ma non scoraggiato, da questa indifferenza, il curato dà inizio a una profonda riflessione interiore, che affida alle pagine di un diario: il lungo monologo interiore ripercorre le tappe che hanno portato il giovane, figlio di una domestica, a scegliere la vita religiosa, le sue considerazioni sul ruolo che dovrebbero avere la Fede e la Grazia nella società contemporanea, la sua cronaca degli eventi quotidiani del piccolo villaggio, affollato di personaggi ostili, volgari ma sempre degni di pietà e ascolto, fino alle pagine più intense, dove narra l’esperienza di un’autentica e sofferta conversione da parte di una parrocchiana altolocata e orgogliosa.
In tutto questo, il tono del racconto non sale mai fino a farsi predica o non si abbatte fino a diventare crisi e dubbio: il curato rimane consapevole di essere, esattamente come i suoi parrocchiani, un peccatore e che la ricerca della Grazia, così come la conferma della Fede, sono obiettivi che staranno sempre davanti a lui, che le prove della vita non potranno mai farlo sentire arrivato, poiché la sua vera metà non deve essere in questo mondo al quale si rivolge nel suo scritto e che cerca umilmente, ma decisamente, di comprendere per poterlo amare.
Consiglio la lettura di questo romanzo a chi nutra interesse verso la riflessione interiore e verso i temi spirituali.
Recensione di Valentina Leoni
Recensione 2
Una sola volta viene nominato il nome del curato di campagna: Bertoldo. In tutto il libro una volta sola. Che cos’è del resto un nome. Non è altro che un’etichetta identificativa. Lo sapeva già Shakespeare! Dio, Gesù, Amore, Libertà…sono solo nomi triturati dalle convenzioni, impastati dal potere, inflazionati dal dovere, impantanati alle austere lezioni dottrinali, alle schiavitù mascherati di liberalismo, alla volgarità spacciata per rivoluzione, al tintinnio dei danari di quel Giuda che oggi non si vergogna più ostentando come trofeo il suo tradimento. Che noia. Che barba e che squallida tristezza.
Lo sa bene il nostro piccolo Bertoldo: non ci sono più slanci sinceri, gridi dei cuori.
Dolorose buffonate. Ecco la realtà.
Benanos aveva capito l’essere umano e il suo falso dio, un dio di comodo rosso porpora ma non di vergogna…
Schiacciati dalla loro stessa piramide gerarchica e convenzionale, gli esseri vagano nella noia, nella incoerenza, nell’abisso dove hanno impiantato quella stessa pagana e inutile piramide spacciandola per volere di un dio abbastanza sordo alla coscienza (lo sapeva Saramago con il suo “Il vangelo secondo Gesù Cristo”) . Un dio che si abbraccia all’angelo caduto facendo comunella con esso poiché è più facile obliare la coscienza sui gradini dell’illusione di monete dorate, in un altare lastricato d’oro di un trono più pagano che cristiano, in una cornice di ” felicità” borghese in cui ci s’impone di vivere e che il miserabile invidia. Giacché è più facile anche per quello zotico, ignorante e miserabile, sordidamente geloso e invidioso, pregare la giustizia di dio trincerandosi dietro una povertà di comodo (o Karma, fate voi) per ambire al trono di chi che lo comanda. Stupido idiota. Un continuo ciclo di umana imbecillità.
“Poiché la miseria e la lussuria, ahimè, si cercano e si chiamano nelle tenebre come due bestie affamate”.
Non è la povertà umana che Gesù Cristo divulgava. No. Era la povertà divina, quella che innalza le anime. E questa è difficile, perché è nascosta nelle piccole cose, nell’ingenuità perduta, nell’innocenza di un bimbo o una bimba ancora non indottrinati.
Lo sappiamo tutto questo, in fin dei conti, lo sappiamo sì, ma lo allontaniamo perche non è comodo, non è agevole, non è corretto, è da pazzi, e così ci agitiamo come calabroni dentro una bottiglia per poi schiattare pentiti.
Il curato di Benanos lo sa e soffre per questo, egli ama il suo simile proprio come Gesù Cristo piangeva sulla croce. Soffre per i fratelli il cui male, quello sotto le vesti del comodo oblio, acceca indifferentemente.
Benanos è potente nel linguaggio, nelle parole. Il suo personaggio, il tenero pretino di campagna, è l’Uomo dai mille dubbi e dall’infinite paure ma ha ancora un’anima, l’anima delle piccole cose, l’anima che si tuffa a testa nell’onda della grazia, l’anima che lo rende capace di amare i suoi simili anche quelli smarriti nel deserto tentatore.
L’anima che vede il bene nella paura della malattia, nella paura di morire, nella paura di non aver lasciato nulla in questa sempre più arida terra dove c’è tanta giornalistica pietà ma poco rispetto.
“Oh! So bene che la compassione degli altri solleva per un momento; non la disprezzo affatto. Ma non toglie la sete, cola nell’anima come attraverso un crivello. E quando la nostra sofferenza è passata di pietà in pietà, come di bocca in bocca, mi sembra che non possiamo più rispettarla, ne amarla”.
Un diario struggente e rivoluzionario, lo sapeva Pereira quando lo traduceva.
Di quella rivoluzione che solo Gesù, il figlio di un dio sempre più sconosciuto, ha attuato nei suoi silenzi, nelle sue contemplazioni, nelle sofferenze di un corpo talmente umano da sanguinare e dubitare.
“Il diario di un curato di campagna” è un libro che bisogna leggere indipendemente dalla fede, blanda o fanatica, dal credo religioso (alibi perfetto di diaboliche azioni, scudo ovattato, rassenerante indulgenza, consolazione egoistica dei propri ed esclusivi dolori, paraocchi per vecchi ronzini) per capire di che pasta siamo fatti, noi sempre più piccoli esseri umani in questa atavica terra che appare senza speranza. Leggere Bernanos per scoprire che nulla è certo, che nulla è giusto, e che, comunque, nulla è proprio il nulla: la fede non è l’illusione d’una grossolana intesa con l’invisibile – il ridicolo è sempre cosi vicino al sublime – la fede, quella vera, è la riconciliazione d’un anima con la speranza, non certo quella proiettata meccanicamente alla vita eterna che, fra l’altro scientificamente non esiste, ma alla coscienza del vivere pienamente con la sincerità di sapersi limitati e seppur immensi.
Tale lettura non ha il potere di riconciliare con un dio invisibile e astratto, ma ha il potere di risvegliare le coscienze (è la coscienza che ci distingue dalle bestie? È questa la parte di quel divino intoccabile, invisibile, indescrivibile?) sonnecchianti sotto la coltre di una superficie piastrellata di schemi, precetti, concetti, parole, parole e parole cementate con calce scadente.
“Credo, anzi sono certo, che molti uomini non impegnano mai il proprio essere, la propria sincerità profonda. Vivono alla superficie di se stessi, e il terreno umano è tanto ricco che questa sottile crosta superficiale basta per un magro raccolto, il quale dà l’illusione d’un destino veritiero”
Leggendolo, non si può non restare colpiti dalla straordinaria abilità di Georges Bernanos nel descrivere il travaglio spirituale dei personaggi e soprattutto nel dare voce alle loro anime assediate (si vedano, a questo proposito, i dialoghi, davvero potenti, veri e propri gorghi d’anima), nell’intento di strappare il lettore alla propria inerzia spirituale, anzi di scaraventarlo in quell’agone ancestrale che – pur invisibile – condiziona da sempre, secondo lo scrittore francese, la nostra esistenza.
Che siano benedette certe menti!
“Quante persone si pretendono attaccati all’ordine e non difendono che delle abitudini, e spesso soltanto un semplice vocabolo i cui termini sono così ben lucidati, ròsi dall’uso, che giustificano tutto, senza mai rimettere nulla in discussione”.
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DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA Georges Bernanos
Un prete, come uomo di Dio, non dovrebbe mai provare la solitudine e l’angoscia esistenziale ad essa connessa e da essa, talvolta, dipendente e talaltra, fonte traboccante della prima; non dovrebbe essere mai triste, né invidioso della condizione altrui; non dovrebbe mai sentirsi incompreso dalla società in cui vive. Non dovrebbe diciamo comunemente, eppure lo è. Lo è almeno il protagonista del libro di Bernanos, che mette per iscritto un diario, come se fosse una teca nella quale custodire gelosamente i ricordi e riviverli, le sue vicissitudini di povero prete di campagna. E’ alla fine dei suoi giorni. La sensazione del male fisico che divora il corpo malato si accompagna alla consapevolezza sempre più intensa e motivata del dilagare del male morale che avvinghia inesorabilmente tutte le persone con le quali interloquisce. Persone intese come individui singoli e non come aleatori animali sociali di aristotelica memoria. “Nessuno, ora, s’inquieta dei miei malanni” (p. 67) scrive nel suo diario il malconcio curato. Ma come potrebbero gli altri interessarsi, o soltanto concepire, i suoi malanni visto che la figura del prete, salvatore di anime, come quella del medico lo è dei corpi, deve essere considerata immune dal male, in qualunque forma esso si presenti. E’ il prete che deve salvarci, come il medico, non noi lui. Non a caso i Santi sono “coloro che han ricevuto più degli altri” (p. 100) e i mediocri sono quelli che, poverini, “hanno bisogno di calore”, di “un riparo” all’ombra e sotto le ali protettive della Chiesa. Nel gioco delle forze economiche il ricco agli occhi di essa diventa “il protettore del povero, il suo fratello maggiore”. Ma essendo colui che rischia di più, ha più diritto di altri a sedere ai primi posti dell’aldilà, come lo è già dell’aldiquà. E così il nostro povero prete si trova stretto inesorabilmente tra due fuochi, fino a bruciarsi; da una parte una concezione pauperistica e lagnosa della vita e della società, dall’altra, una visione tendente a giustificare le diseguaglianze economiche dell’aldiquà con il soprannaturale. Il povero invidia “l’immagine ingenua” (p. 134) che si è fatta del ricco non sapendo che la sua casa è lungi dall’essere un luogo di pace e di preghiera. La grandezza del povero irraggia da lui a sua insaputa, mentre lui, stolto o ingenuo che sia, la mendica dal ricco. La giustizia che, nelle mani dei governanti diventa ingiustizia, è un potente e subdolo mezzo di controllo del livello di sopportazione del povero, della sua capacità di soffrire e di umiliarsi, di spossessarsi del suo io e di non urtare gli ingranaggi che portano alla creazione della ricchezza. In ultima analisi, l’incomprensione e la solitudine del prete sono figlie della laicizzazione della Chiesa e dell’incompiutezza del percorso cristiano.