SELVAGGIO OVEST Daniele Pasquini

SELVAGGIO OVEST, di Daniele Pasquini (NN Editore – gennaio 2024)

Nelle due nottate furiose passate in compagnia di questo libro, un vero corpo a corpo febbrile con la pagina scritta, ho riscoperto il gusto puro e semplice di una storia da conoscere, di un’avventura da vivere. Ho ritrovato lo stupore infantile che colpisce i bambini mentre, seduti sulle ginocchia dei nonni, li ascoltano raccontare. Magari al tepore di un camino scoppiettante, magari in una fresca veranda vicino al mare.

Se i protagonisti si chiamassero Bill, Gus, Jack, li seguiremmo mentre galoppano per le sterminate distese del Montana, o li vedremmo entrare a passo in villaggi fantasma, in cerca di qualche malfamato saloon, fra il Texas e il New Mexico. Sembra quasi di vederli, i cowboy all’avventura, il bandito in fuga, fra un duello e una partita a carte, in una pellicola cinematografica in puro stile Ford, Sturges o Peckinpah.

I personaggi di questo sorprendente romanzo si chiamano invece Donato, Giuseppe, Leda. Hanno soprannomi come “Penna”, “Pozzo”, “Occhionero”. Tutto ha un soprannome, in questa parte della Maremma post-unitaria di fine ‘800. Soprannomi come “Rogo” o “Fiuto”, assegnati per via di un evidente tratto fisico, o una particolare abilità. Non sempre però il motivo di quei nomi sopravvive nel tempo.

«La gente dava continuamente nomi alle cose e ai luoghi, ma poi se ne andavano, o morivano, e nessuno rimaneva abbastanza a lungo da trasformare le parole in memoria. I nomi restavano appiccicati, ma era difficile che qualcuno ricordasse i motivi».

È una storia che contiene molte storie. Quella di un padre che sente il crescente dovere di rivelare un segreto che pesa come un macigno, quella di un figlio che cerca con commovente insistenza lo sguardo di quel padre, la sua voce, il suo affetto, mentre cavalca al suo fianco.

È la storia di un carabiniere in cerca di gloria, che incrocia sul suo cammino un’altra storia: quella di un temibile fuorilegge e della sua banda, assetati di vendetta nei confronti di quel padre e di quel figlio.

È la storia del leggendario circo di William Frederick Cody, da tutti conosciuto come Buffalo Bill, che attraversa l’Oceano con la sua carovana di attori e fa rotta verso la Toscana.

«Fino alla fine, c’era sempre qualche bivacco lontano da cui saliva il fumo di un fuoco, e uomini e donne e bambini accampati, abbracciati sotto un tetto o in una tenda o sotto la luna, dove poche parole si moltiplicavano in storie: e alcune erano vere, a tutte le altre pure».

Immergersi fra queste pagine vuol dire abbandonarsi ad un racconto impregnato di saggezza popolare, mistero e verità storica, situato in un punto non ben definito, fra storia, mito e leggenda. Sta proprio in questa mescolanza, uno dei punti di forza del romanzo. Merito dell’autore, che maneggia la materia del racconto, impastandola e modellandola con una sapienza e una destrezza davvero notevole.

Verità e leggenda, storie vere o inventate. Anche di questo, soprattutto di questo, sono fatte molte delle storie che hanno contribuito a costruire il mito western. La morte che lascia dietro di sè una scia fatta di storie da raccontare, di gesta da rievocare, di leggende da costruire (e per far sì che la leggenda sopravviva, si arriva persino a nasconerla, la verità – come accade nello straordinario racconto “L’albero degli impiccati” di Dorothy Johnson, finalmente pubblicato in Italia da Mattioli 1885 nella raccolta “L’uomo che uccise Liberty Valance”).

Ci sono tutti, in “Selvaggio Ovest”, i temi e gli elementi che hanno popolato per decenni le migliori storie di frontiera: l’onore, la brama di conquista, l’avventura, il coraggio, la lealtà, la vendetta. La morte, che inevitabilmente compare a più riprese e sembra incombere come un oscuro presagio in molte scene del racconto.

«Niente di più ovvio della morte segna il tempo di ogni cosa, e tutto il tempo che si impiega a rimandare la fine è il mistero che a ciascuno è dato di vivere».

Daniele Pasquini raccoglie il testimone della grande tradizione western (McMurtry, su tutti) per consegnarci una storia di “caubòi” impregnata di calore familiare.

C’è una luce abbagliante, che traspare da ogni pagina, una luce che illumina le notti più fredde e più buie, che ristora dalla fatica di una lunga cavalcata, che rincuora e riscalda, riscalda e commuove.

La luce di una casa, in fondo alla vallata, a cui fare ritorno. L’abbraccio di una moglie, il bacio sulla fronte di una madre.

Recensione di Valerio Scarcia

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