Racconto il lato oscuro del male: intervista a Sandrone Dazieri

“Racconto il lato oscuro del male: intervista a Sandrone Dazieri”.

 

Sandrone Dazieri, 59 anni, cremonese, sin da ragazzo lettore inarrestabile di gialli e fantascienza, boy scout, già tredicenne decide che diventerà uno scrittore, fa la scuola alberghiera a Bergamo, il cuoco controvoglia per alcuni anni, arriva a Milano e diventa attivista del centro sociale Leoncavallo, dopo lavori saltuari e vita alla giornata entra nel mondo dell’editoria come correttore di bozze, giornalista de Il Manifesto, scrive il primo noir del Gorilla, viene chiamato a fare il direttore dei Gialli Mondadori, poi di tutto il comparto dei libri per le edicole, sceneggiatore, autore di soggetti per fumetti, docente, infine autore di successo a tempo pieno.

 

 

Sandrone Dazieri

 

D. Nei suoi libri divenuti famosi, come la saga del Gorilla e la trilogia di Colomba Caselli e Dante Torre, lei non cerca la cronaca eppure il suo romanzo più recente ‘Il figlio del mago’ è ispirato ai delitti collaterali del mostro di Firenze, cioè a fatti realmente accaduti: è un nuovo approccio tra fantasia e realtà che avrà un seguito?

R. Ho sempre cercato di raccontare il presente, ma mai la cronaca: questo vuol dire che ho fatto in modo di scrivere romanzi che dessero delle chiavi di lettura sul presente. Però è vero, mi sono sempre tenuto lontano dalla cronaca perché la cronaca passa mentre i romanzi, la letteratura, in generale l’arte devono essere eterne, universali … poi, chiaramente, chi lo sa cosa succederà dei miei romanzi. Nel caso de ‘Il Figlio del mago’ ho violato questa regola per due motivi. In primo luogo, perché è un caso lontano rimasto aperto e che risulta a mio avviso emblematico; mi interessava parlare delle vittime secondarie del mostro di Firenze che sono state messe in secondo piano rispetto ai delitti ufficiali del mostro … o dei mostri. In secondo luogo, ho raccontato una storia di invenzione che mi ha permesso di parlare di quelle vicende, un modo coerente con ciò che è sempre stata la mia chiave: l’invenzione che ti permette di raccontare il presente. La storia di Antonio con tutto quello che accade è totalmente inventata ed è il cuore della storia; questo può rimanere. È stato una specie di mix tra le cose che faccio io, un esperimento che non si avvicina, però, al lavoro del giornalista il quale ha dei tempi che non mi posso permettere, però è vero certe storie riportate alla luce rimangono universali e questa è una di quelle.

 

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D. Nei suoi romanzi lei ha usato molto la figura del ‘doppio’: Colomba Caselli si confronta e si contrappone con Dante Torre, nel Gorilla l’alter ego è addirittura dentro il medesimo soggetto. Questo contrasto spesso antagonista le serve per indagare più a fondo il carattere dei suoi protagonisti? È un po’ come lo specchio di Dorian Grey? 

R. La questione del doppio, due personaggi che si confrontano, è uno dei classici del giallo da sempre; permette di far passare informazioni al lettore senza annoiare, di mostrare più punti di vista su una storia e così via: l’idea che un poliziotto abbia una spalla è quasi inevitabile in una storia gialla. A parte questo, invece, il doppio inteso come pluralità dentro di noi, come il nostro mondo interiore, è sempre stato uno dei miei temi perché riconosco che noi non siamo un’unità monolitica, ma siamo degli universi e dentro di noi questi universi si confrontano costantemente, c’è sempre un conflitto. Sono stato sempre consapevole che dentro di me ci fossero più lati che spesso contraddicono l’uno con l’altro. Questo mi ha portato poi ad elaborare il Gorilla e la sua particolare forma di scissione mentale: una metafora dell’animo umano che ho messo in gioco per costruire questi gialli.

D. Il Gorilla è Sandrone Dazieri, una identificazione totale, perfino nel nome, rara da trovare nel panorama letterario (in Italia un esempio analogo è forse quello dello scrittore sardo Gesuino Nemus). È, peraltro, la fusione con un individuo nel quale coesistono due personalità, una istintiva e poco incline alla violenza, l’altra fredda e cattiva: si potrebbe dire che è come un modo per esorcizzare il suo proprio vissuto?

R. È vero che quando ho incominciato a scrivere il Gorilla l’autofiction era abbastanza rara, ma ci sono tanti esempi di storie di autofiction importanti. Mi viene in mente Paul Auster quando ha scritto la ‘Trilogia di New York’ e in una delle storie il protagonista è Paul Auster, anche se è solo il nome. Oppure sto pensando a ‘Lunar Park’ di Bret Easton Ellis in cui lui racconta la propria vita e la disavventura che ha: ovviamente è tutto inventato, però parla di se stesso attraverso l’invenzione. Tra questi esempi c’è anche Ellery Queen, che si chiamava così nei telefilm ed era lo pseudonimo dell’autore. In realtà, non voglio esorcizzare nulla, come dicevo prima mi interessa mettere in luce le contraddizioni: dentro di me ci sono questi aspetti e li racconto perché è anche una chiave per leggere il mondo. Se noi non siamo unici, se abbiamo diversi punti di vista dentro di noi bisogna anche accettare che il mondo si possa vedere in tanti modi differenti a seconda del momento e capire da che cosa derivano le nostre azioni. Penso anche che nessuno di noi sia molto distante dal mostro: c’è una parte dentro di noi che è mostro, che è violenza, che è odio e se questa parte non prende il sopravvento è perché la nostra vita è stata in un certo modo, perché il nostro cervello è stato fatto in un certo modo, chi lo sa, ma siamo stati fortunati, altrimenti probabilmente saremmo uno dei tanti che finisce in carcere perché ha ucciso il vicino di casa che faceva rumore o per aver fatto qualche cosa di turpe. Però dentro di noi il turpe esiste, questo è per me importante, è una questione ideologica: io combatto i gialli, i discorsi, gli articoli, i ragionamenti che tendono a differenziare la normalità dall’anormalità, che dicono ‘certe cose le fanno i mostri e i mostri sono qualcosa di diverso da noi’. Ritengo questa visione distorta, mentre in realtà tutti noi siamo i mostri, semplicemente dei mostri inespressi.

 

 

 

 

D. Lei ha conosciuto a fondo il mondo della emarginazione: si identifica ancor oggi con esso o la trasposizione nel genere giallo costituisce uno strumento per inquadrare quel mondo e dargli una visibilità oggettiva?

R. Io mi identifico solo con me stesso, non mi identifico né con una categoria, né con un mondo. Certo, ho conosciuto l’emarginazione molto a fondo, la conosco ancora anche se sono sempre stato un emarginato a modo mio quando lo ero. Detto questo, è chiaro che il mio punto di vista è sempre dalla parte delle vittime, dei deboli, dei poveri, di quelli che non hanno potere, io sono sempre dalla loro parte idealmente e nei miei romanzi questo si riflette. Non sto certo dalla parte dei ricchi e dei potenti o degli eroi, io non credo agli eroi, ma agli antieroi, quelli che fanno comunque delle cose giuste alla fine, però non lo fanno perché credono di essere degli eroi, ma perché alla fine è l’unica scelta possibile.

D. Lo stesso nome del nostro gruppo, ‘Il passaparola dei libri’, ci dice che consideriamo la comunicazione tra i lettori come la principale fonte di successo per un’opera letteraria: questo significa che l’odierna editoria imprenditoriale non funziona se non conserva pure oggi un suo aspetto artigianale?

R. Questione complessa: se fossi un editore potrei dare una risposta, ma ho smesso di fare l’editore da un po’. Il passaparola è importante, ma il passaparola di un libro deve essere innescato, salvo casi eccezionali. Ho in mente, per esempio, un libro di tanti anni fa che si chiamava ‘Tre metri sopra al cielo’ di Moccia che alla sua pubblicazione venne di fatto ignorato e poi crebbe per parecchi anni attraverso il passaparola, fotocopie private degli studenti e così via, fino a quando venne riscoperto dall’editoria, ripubblicato e alla fine divenne un successo anche editoriale.  Ma le due cose devono coincidere: occorre quello che si chiama il marketing, la proposta da parte dell’editore, il posizionamento sul mercato, nelle librerie, la ricerca di una sponda anche all’interno dei giornali o dei mezzi di comunicazione che serve per innescare quel passaparola: se tu non sai che esiste un libro è molto difficile che tu possa prenderlo e poi raccontarne a qualcun altro. Sono due aspetti necessari: alcuni social media per un certo periodo hanno avuto una grande funzione per fare questo passaparola, purtroppo la moltiplicazione delle fonti e la moltiplicazione delle offerte hanno fatto sì che si producesse una confusione: se vado sulla mia pagina di Facebook trovo decine se non centinaia di proposte di libri diversi o di opere d’arte differenti, di cinema o di televisione, questo fa sì che tutto venga annegato nel rumore di fondo. Esistono però dei social come Tik Tok dove questo meccanismo sta diventando abbastanza di moda: sono stato recentemente in Olanda dove ci sono intere sezioni delle librerie dedicate ai libri pubblicizzati da Tik Tok, vuol dire che il passaparola dentro quel sistema funziona.

 

 

D. Proprio per l’importanza che anche lei riconosce al passaparola, può dare ai componenti del nostro gruppo qualche indicazione sugli autori che preferisce?

R. Facendo questo mestiere dare delle indicazioni sugli autori che preferisco vuol dire scartarne tanti e che magari conosco: preferisco evitare. Posso dire di avere dei maestri: Steven King, Jeffrey Deaver soprattutto il primo Jeffrey Deaver, Paul Auster, Don De Lillo. Il romanzo americano contemporaneo è sempre stato una delle mie bussole, non tanto per i contenuti visto che quello che leggo non sono quasi mai thriller o gialli perché dopo un po’ ti esce dalle orecchie, ma come stile, come costruzione del periodo, della frase e come lavoro sull’interiorità dei personaggi. Poi vado a trasportare questa cosa in prodotti più commerciali, ma la ricerca sullo stile, sulla tecnica per me è fondamentale e continuo a farla.

D. Lei è uno scrittore, ma anche un cultore e un esperto di gialli: cosa pensa della tesi espressa a suo tempo da Leonardo Sciascia secondo la quale il miglior lettore di polizieschi è colui che non si pone come antagonista, ma si affida passivamente alla mente dell’investigatore senza sperare di individuare anzitempo la soluzione?

R. Penso che ognuno legga i libri come ne ha voglia.

D. Sembra che il contenuto dei suoi libri più che dalla rivelazione del colpevole sia segnato dal perché, dal come e dal quando sono accadute le cose che lei narra: una indagine più a fondo sui limiti e le possibilità dell’animo umano.

R. È vero. È chiaro che la mostrificazione dell’assassino o del colpevole o la banalità dell’indagine per trovare il cattivo e metterlo in galera non mi hanno mai interessato molto. Mi interessa ovviamente più quella parte lì, quello che porta al delitto, una vittima ad essere una vittima, un carnefice ad essere un carnefice. Mi interessa l’origine del male che è qualcosa che continua ad affascinarmi: perché qualcuno da voce al suo lato oscuro e qualcuno no? Ci sono delle svolte nella nostra vita che portano in una direzione o in un’altra e queste svolte mi sembrano interessanti da analizzare.

 

 

D. Giallo, thriller, noir, hard boiled: articolazioni diverse della letteratura poliziesca che lei percorre con una certa alternanza. Cosa c’è alla base della decisione di esplorare questo o quel genere?

R. La storia che voglio raccontare. Se la storia si presta ad un certo tipo di trattamento, un thriller piuttosto che un giallo, drammatico, piano o letterario, allora la adatto in quella direzione. Questo vale anche per l’uso dei personaggi ricorrenti, seriali: a volte ci sono delle storie in cui posso utilizzare i miei personaggi seriali già creati prima, altre volte ho delle storie in mente che si snaturerebbero ad usare dei protagonisti seriali e allora invento dei personaggi nuovi come è stato per ‘Il male che gli uomini fanno’ o ‘Il figlio del mago’.

D. Il giallo scandinavo di Maj Sjöwal e Per Wahlöö, di Mankell, di Indridason, di Nesser ha svecchiato l’immagine infallibile e risoluta dei precedenti protagonisti dei thriller; anche i personaggi da lei creati hanno caratteri sensibili e complessi che li rendono poco integrati nella società. C’è una qualche relazione con quella innovazione proveniente dal Nord Europa?

R. I gialli del Nord Europa non mi hanno ispirato, ho incominciato a scrivere prima che arrivasse l’ondata, ho notato l’esistenza del Nord Europa quando uscì ‘Uomini che odiano le donne’, e allora ho notato anche una certa affinità di temi. Ma lo sviluppo è stato diverso: questi gialli scandinavi sono per lo più storie nelle quali si raccontano le indagini fatte da poliziotti o da squadre di polizia, cosa che io non faccio quasi mai perché non è una esperienza che ho così diretta, così vicina. 

 

 

 

 

D. Il sesso nel giallo ha avuto spazi diversi: svanito nei personaggi più cerebrali come Nero Wolfe, Hercule Poirot o Sherlock Holmes, oppure portato quasi alla pornografia nei gialli popolari del dopoguerra. Questi opposti eccessi si sono ricomposti nel naturalismo narrativo degli anni più recenti?

R. Non penso che ci sia una regola unica. I gialli che arrivano fino al dopoguerra erano casti perché si rivolgevano ad un pubblico che non avrebbe gradito Sherlock Holmes che fa sesso e poi perché non si usava. Nel dopoguerra ci sono stai autori come Mark Spillane che esageravano la parte sensuale del protagonista, però non è che andassero a fondo. Ci sono autori che usano il sesso, ma quasi mai diventa centrale all’interno di un racconto giallo o thriller perché si va verso la morte più che verso l’amore. In ogni caso, non noto un movimento che vada nella direzione sesso o non sesso: ognuno scrive come gli pare. Penso anche che ci sia una tendenza da parte di autori italiani i quali, volendo costruire dei prodotti adatti alla fiction della Rai, tendono a smussare tutti gli elementi che appaiono scabrosi: autocensura non solo sul sesso, ma anche su altre cose per prodotti molto potabili e adatti alla televisione. Penso anche che qualsiasi autore che scrive libri è contento se viene fatto un film o una serie sui propri romanzi, ma questo deve essere un pensiero successivo, non ci devi pensare prima mentre stai scrivendo il romanzo, in quel momento devi esprimere al massimo ciò che vuoi scrivere, dopo se qualcuno vuole adattarlo non è un problema tuo. Tutto questo è quindi un invito a non autocensurarsi.

D. Qual è il ruolo della paura nella letteratura gialla?

R. Un po’ di tensione bisogna darla ai lettori. Per dare la tensione si deve passare attraverso la tensione dei protagonisti e quindi la loro paura di essere ammazzati o che qualcosa di terribile gli accada. Questo almeno all’interno di un certo tipo di romanzi: tenete presente che il giallo classico, il mistery non prevede che i protagonisti rischino la pelle, cioè non abbiamo mai paura per Poirot o per Nero Wolfe, sappiamo che sono dei seriali che torneranno e soprattutto non vengono mai attaccati in prima persona. Il thriller, viceversa, ha come caratteristica quella di mettere in pericolo anche il detective, lì la tensione, la paura, il pericolo di morte per il protagonista sono più importanti che non nel mistery.

 

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D. Nonostante il suo successo, lei ha sostenuto che il suo gusto, addestrato da anni di buona lettura, è sempre più in alto di quello che sa produrre; però ha anche detto che il sentirsi un po’ a disagio costituisce un vantaggio perché nota cose che gli altri non sanno vedere. Non le sembra, tutto ciò, una delle ragioni della qualità delle sue opere?

R. Non sono la persona giusta per parlare della qualità delle mie opere. Cerco di fare cose di qualità, penso di non aver mai fatto dei romanzi tirati via, ma ho sempre avuto il dubbio come guida: quello che sto scrivendo è buono? Quello che sto facendo ha un senso? Sto esagerando? Sto andando nella direzione giusta? Sto raccontando una storia comprensibile? I personaggi sono banali, sono interessanti? Queste domande me le faccio spesso, esse sono una delle ragioni per cui non sono un autore così prolifico come potrei essere, non scrivo tre romanzi all’anno, magari ne scrivo uno ogni due. Ovviamente preferirei scriverne tre all’anno, da un punto di vista economico mi converrebbe, però il dubbio rimane e non penso di essere arrivato ad un punto che qualunque cosa io scriva, anche la lista della spesa, qualcuno abbia voglia di leggerla, non è così, cerco sempre di dare qualcosa di buono al lettore.

D. La saga del Gorilla ha uno stile soggettivo, la trilogia dei Colomba Caselli e Dante Torre una narrazione oggettiva, in più lei ha scelto di gestire l’ingresso di temi sociali. È una domanda forse temeraria: come si scrive un giallo o, meglio, come lei si accinge a inventare un suo libro che incontri il gradimento del pubblico?

R. Cerco di raccontare un libro che incontri anzitutto il mio gradimento e per realizzare ciò il libro deve avere certe caratteristiche: deve essere ben scritto, al massimo delle possibilità, avere una trama che sorprenda, dei personaggi a cui ci si possa affezionare. Poi mentre scrivo e quando ho finito il romanzo e soprattutto quando lo pubblico spero che incontri il gradimento del pubblico, spero che quello che ho fatto e che piace a me trovi delle persone a cui piaccia: non ho mai scritto per il gradimento del pubblico: cosa piace al pubblico, cosa vogliono leggere non è una domanda che mi faccio, magari se la fa il mio editore.

Di Giovanni Rossi

 

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