QUESTO IMMENSO NON SAPERE. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano Chandra Candiani 

QUESTO IMMENSO NON SAPERE. Conversazioni con alberi, animali e il cuore umano, di Chandra Candiani   (Einaudi – agosto 2021)

           

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Un albero, un sorriso, un pensiero. Parole sparse felici. Scoprire che amare non assomiglia a niente di ordinato. Questo libro è: «un libro disordinato […] un invito alla sovversione» (p V)

Ogni volta che inizio un libro faccio tabula rasa di tutto quello che so. M’immergo nella lettura come se fossi in apnea. Trattengo il respiro. Per non perdermi nulla. Poi piano piano mentre espiro mi lascio cullare dal sapore di queste nuove parole. Se non provo piacere, non mi trattengo a lungo con loro. Mi sposto in cerca d’altro. Ma sempre con lo stesso approccio: dimentico quel che so o credo di sapere, creo spazio a nuove vie delle parole e mi predispongo alla meraviglia. “Questo immenso non sapere” di Chandra Candiani è un pozzo di meraviglia, che apre cieli e mondi come accade nelle fiabe narrate da cantastorie senza tempo. Non ho faticato a entrare nel suo magico mondo. Forse lo abitavo già senza saperlo.

 

 

Prosa frammentaria o frammenti poetici in prosa “Questo immenso non sapere” è un insieme di pensieri in libertà, memorie raccolte nei boschi, immagini evocate dagli animali da collezione di casa, scene con alberi e uccelli, incontri con persone e momenti di riflessione su come stare al mondo nella relazione. Una relazione dove l’altro può essere un albero, un filo d’erba, un gatto, un essere umano, un fratello, una sorella, uno sconosciuto, un divano, una pietra. Non c’è nessuna gerarchia nella ricerca dell’altro. L’altro è. Semplicemente. Ed è un esercizio che più si pratica più fa bene. Ne usciamo tutti fortificati, la relazione attiva nuove energie, che fanno bene, che guariscono.

Capire è un esercizio invece poco utile, secondo la poetessa: «gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire.» (p 11) È meglio non ostinarsi nella ricerca nozionistica del mondo poiché è probabile che questo tipo di approccio ci impedisca di scorgere le meraviglie che ci circondano: «chi sa o crede di sapere molto, […] non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra.» (p 8) Un ritorno sui propri passi, un voltarsi indietro, verso un vivere semplice e immediato: «[…] vengo da un luogo dove voler vivere era considerato volgare, codardo, e invece autodistruggersi avventuroso ed elegante. Ho obbedito agli animali. Sono andata nella direzione che mi indicavano loro.» (p 5)

 

 

 

Così, Chandra Candiani dialoga con tutti, esseri inanimati compresi, come il poeta bretone Eugène Guillevic si chiede: «se un giorno vedi / che una pietra ti sorride / andrai in giro a dirlo?», (traduzione italiana di G. Labriola in “Antologia Europea” Stilb, Roma, 1990). Per così poi sentirsi parte di un sistema spazio-temporale oltre il proprio corpo: «[alberi e animali] mi hanno dato un prezzo diverso al tempo, non di sola perdita, quasi una tradizione immutabile, una continuità dove si vive all’insaputa di sé.» (p 7)

Con il cuore in mano, siamo anche più predisposti ad affrontare il dolore. Diventa un «assaporare la sofferenza senza cadere nella rete di raccontarsela, ma lasciando che sia lei a raccontare» (p 10) S’intuisce una verità fondamentale per comprendere quello che ci accade e reagire nella maniera giusta: «osservare il male anziché scovare il malfattore.» (p 22) O come diceva un altro poeta: «Vai al tuo cuore infranto, / se pensi di non averne uno, procuratelo. / Per procurartelo, sii sincero.» (p 25) (Jack Hirshman, Sentiero in Volevo che voi lo sapeste, a cura di Raffaella Marzano e Sergio Iagulli, Multimedia Edizioni, Salerno, 2004, p 185). «Fa male» (p 58) Certo. Ma è la condizione essenziale per entrare in noi stessi, non raccontarci bugie, attraversare le nostre dolorose fattezze lasciando l’odio altrove. Non è necessario cedere all’odio: «riparare e ripararsi significa staccare il filo che ci lega al danneggiatore, […] non assomigliarli» (p 99)

 

 

Chandra Livia Candiani (Milano, 1952) è una poetessa, traduttrice di testi buddhisti e maestra di meditazione. La sua essenza è tutta racchiusa in questo libro ma mai prevale lo spirito dell’insegnamento sugli altri aspetti della sua personalità. Vi è sempre armonia nelle parole che respirano, si adattano ai ritmi del corpo e rispettano i tempi della mente e del cuore. Un incedere che porta il lettore verso i propri spazi, le proprie necessità, senza mai avvertire sensazioni di disagio o di inadeguatezza.

Una scrittura fluida, leggera, senza pretese, ma efficace, incisiva, pura, limpida, cristallina. Che arriva al cuore. Nostro. E delle cose. Che si veste di poesia spogliandosi. «Il cuore è di tutti, […] è impersonale e fluido, è. senza proprietari.» (p 35) Così sono i poeti. Liberi. E disordinati. Semplicemente qui. Nel tempo e nello spazio presente. Riconoscere il proprio limite nel comprendere tutto quello che vi è oltre. Comprendere nel senso di accogliere dentro di sé, non di capire. Seguendo questa filosofia del gioco, la mancanza di ordinata routine quotidiana è una piccola rivoluzione. «Un libro disordinato è un invito alla sovversione» (p V).

 

 

Chandra Candiani, il cui primo nome, Livia, si è sciolto come neve, così lei stessa rivela in un’intervista, si spoglia delle sue antiche identità, dei suoi ‘io’ precedenti, come se abbandonasse vecchi abiti che non le servono più. Indossarne altri che avvicinano il suo percorso a quello degli astri e dell’altro da sé: «Era il nome dell’infanzia, risuonava per me con una cupezza e con un senso di sequestro, quando ti viene tolta un’identità più vera, l’individualità. La ricostruzione della mia storia, le soste nel fitto del buio e il calore di chi mi ha ascoltato hanno sciolto il nome, ora sono solo Chandra. È il mio nome ‘religioso’, o almeno la sua metà, e significa luna che mi è molto cara, una testimone silenziosa che da lontano registrava i danni e conservava memoria di sguardi, di fatti e parole.»

Lasciare che sia la vita la vera protagonista, forse è questo il segreto. Lasciare che il nostro io cada in terra come una veste ormai inutile. Se questo accade davvero è un dono. Allora la poesia emerge. In quel luogo di nudità e semplicità. Come diceva Kabìr, il poeta e tessitore indiano del ‘400: «O mio cuore, non andare altrove.» (p 31) Rimanere a casa, amare da lì. La sensazione di protezione che ci conferisce l’appartenenza a un luogo è importante anche per il cuore, affinché sia capace di ricevere e inviare amore. Sparisce il nostro egoismo e ci sentiamo bene, capaci di stare nel bene.

 

 

«Non è aritmetica, è danza.» (p 107) Cosa? Il karma? La vita? la poesia? Senz’altro danzano le parole in questo libro senza ordine prestabilito o metrica rigorosa. Così le immagini. E il lettore le fa sue. Diventa così “fontana” e non “spugna” allenando il suo cuore ad ascoltare senza assorbire il vissuto altrui. Così si appropria anche della magia dell’errare, la capacità di scoprire nuovi luoghi per conto proprio, includendo anche la possibilità d’imbattersi nell’errore, di commettere sbagli. «Senza energia dell’errore non si procede, si resta spiaggiati. È ritrovando la possibilità di errare che si riparte, ma non si può fabbricarla, occorre lasciarla arrivare, occorre togliere gli ostacoli: il confronto, il giudizio su di sé, il voler compiacere agli altri, l’ambizione mondana.» (p 122)

 

 

«Cresci!» è scritto nel Talmud nel senso diventa più grande del problema (p 143). E anche quando ormai più grandi del problema, la vita ci sembra scorrere in maniera fluida e corrispondente a quello che proviamo, rimane un ultimo interrogativo: «Come tenere tutti dentro, animali e alberi compresi. Come amare sapendo che la separazione ci aspetta? Come essere?» (p 150) Con grande umiltà, Chandra Candiani ribadisce il suo non sapere: «Non lo so. Sono le leggi della vita, le sue imperscrutabili coreografie, danze per non vedenti, un soffio leggero ci sfiora la faccia e le mani e pur non vedendo sappiamo: la danza continua.» (p 150)

 

 

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