POETA AL COMANDO Alessandro Barbero

POETA AL COMANDO, di Alessandro Barbero (Sellerio – aprile 2022)

“Siamo trenta d’una sorte,
e trentuno colla morte.
Secco fegato, cuor duro ,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.
Eja, carne del Carnaro!
Eja, eja,alalà”.
“E’ una gran cosa che dopo aver preso una città io debba ancor sempre aver bisogno di quattrini”.

Romanzo pubblicato per la prima volta nel 2003, racconta il D’Annunzio nell’ultimo periodo che precederà il trattato di Rapallo, che concluderà l’impresa fiumana. Era il Il 12 settembre 1919, quando Gabriele D’Annunzio, alla testa di un gruppo di ribelli, granatieri, bersaglieri, cavalleggeri, arditi del Regio esercito italiano, occupa la città di Fiume. L’idea di prendere Fiume nacque dalle clausole della Conferenza di Pace di Parigi, del 1919, che negavano agli italiani il possesso della DalmaziaIstria e della città di Fiume, perché non previsti negli accordi iniziali ma che l’Italia reclamava, come indennizzo rispetto alle promesse mancate. La ragione dietro a questo diniego fu la creazione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (poi divenuto Jugoslavia) che doveva riunire tutte le genti slave in virtù del principio di autodeterminazione dei popoli, proclamato dal presidente americano Woodrow Wilson. 

 

 

Lo stesso D’Annunzio coniò il detto “vittoria mutilata” e su questo fece leva per organizzare il suo variegato esercito e prendere la città. Creò un governo provvisorio e una Carta Costituzionale, la ”Carta del Carnaro”. Il Governo italiano presieduto da Francesco Saverio Nitti oppose subito le proprie rimostranze. Benché caldeggiata da una parte della popolazione, la presa di Fiume era una violazione dei trattati che lo stesso Regno Italiano aveva firmato e questo avrebbe aperto una complicata disputa diplomatica. Il 12 novembre 1920 venne firmato il Trattato di Rapallo che disegnava i confini italiani e jugoslavi. L’Italia ottenne Trieste, Pola, Zara e Gorizia.

 

 

Riconoscendo Fiume come Stato libero e indipendente. D’Annunzio non riconobbe quanto stabilito a Rapallo e perciò il governo fu costretto a incaricare il generale Caviglia di far sgomberare con la forza i ribelli. L’attacco, con tanto di cannoni e mitragliatrici, iniziò il 24 dicembre 1920 ( D’annunzio lo definì “Natale di Sangue”) e si concluse il 28 dicembre, piegando la resistenza dei legionari barricati dentro la città. Nel gennaio del 1921 terminò l’occupazione e d’Annunzio tornò in Italia insieme ai suoi seguaci. Proprio questo è periodo in cui si sviluppa il romanzo che mostra un “Vate” ormai stanco, malinconico, quasi fragile e sempre più in preda alle droghe, ancora più decadente per il peso che la storia lo costringe a portare. Non mancano le “avventure” amorose vissute o quasi “subite”, per mantenere vivo il suo essere” superuomo”.

 

 

La sua vita è inimitabile: tutta vissuta al massimo e la vecchiaia che avanza, non lo scalfisce (o sembra non scalfirlo) perché rimane sempre audace, donnaiolo, sperperatore, tanto preso da se stesso da apparire quasi inconsapevole delle concrete conseguenze della sua azione. Tutto questo, nel romanzo, è narrato , attraverso gli occhi di Tom Antongini (amico e segretario di D’Annunzio a Fiume ) che ,nel 1944 da Salò, rievoca gli eventi vissuti in prima persona, sempre a fianco del Vate. Un racconto a tratti ironico e dubbioso perché D’Annunzio spiazza: inizia ad essere vicino alle nascenti idee fasciste, si circonda di socialisti, bolscevichi e sindacalisti. È il primo capo di Stato a riconoscere l’Unione Sovietica, e a sua volta guardato in questa impresa con simpatia da Lenin. Ma è anche un “comandante” che deve prendere decisioni che spesso non gradisce come per alcuni fatti delittuosi che vengono compiuti sotto la sua reggenza. La scrittura del romanzo scorre fluida ed elegante e ti prende fin dalle prime pagine.

Recensione di Lida Campanile
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