NIENTE DI VERO, di Veronica Raimo (Einaudi – febbraio 2022)
Recensione 1
Le storie che ci riguardano se inserite in una cornice letteraria diventano meno ingombranti, persino in grado di farci ridere. Ed è liberatorio spolverare il nostro vissuto con i panni in fibra contemporanea.
Con questo nuovo romanzo, Veronica Raimo si tuffa nelle sue stigmate identitarie. Nella noia della sua infanzia e adolescenza. Nella culla della famiglia che dissacra, contesta e deride. Nelle sue prime esperienze sociali dove la sua equazione ha incognite sconosciute e di ostica comprensione. “Niente di vero” non racconta niente di scontato, né si presenta come romanzo di formazione vero e proprio. Sono gli anni in cui ci si forma, certo, ma quello che racconta Veronica Raimo è scomodo, antieroico, antiestetico. Rispetto ai libri precedenti, cambia registro, da una scrittura più distaccata, “algida”, come un suo amico scrittore la definisce, passa a una narrazione più intima dove si parla di infanzia, adolescenza, casa, amici, scuola, famiglia. Il mondo di chi cresce.
Autobiografia? Autofiction? Finzione? Bugie? A Veronica Raimo, piace quest’ultima parola, come si evince dal titolo “Niente di vero”. D’altronde, «una storia è un concetto ambiguo» (p 163), la protagonista del romanzo che è una ‘personaggia’ (termine rubato a Marina Pierri) a tutti gli effetti anche se porta lo stesso nome dell’autrice, è distante, distaccata, diversa. Nonostante attinga alla propria storia, alla propria memoria nella consapevolezza di quanto venga storpiato il vissuto reale, la protagonista è un altro da sé. Diventa oggetto di narrazione. Questo le consente di poter dire: «per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti.» (p 163) Libertà assoluta nella scelta delle cose da raccontare. Episodi e tratti della personalità fastidiosi e poco edificanti. Ecco che tutto viene spadellato senza mezzi termini. Lo schifo ne è parte integrante. Frammentario, senza disegno o struttura prestabilita, “Niente di vero” sposta il valore della famiglia, su quello della comunità, che non è per forza formata da parenti e famiglia, ma da persone prossime, vicine, amiche.
Non è un caso che la dedica è per le amiche e non per i genitori. Accusata di non amare la Puglia, Veronica Raimo non si scompone, credo fosse sua intenzione denunciare la falsità dei valori che promuove il concetto di famiglia, molte sentito al Sud, ma radicato anche nel resto dell’Italia. In “Niente di vero” vediamo così gli uomini di famiglia che russano in poltrona mentre le donne rassettano dopo il pranzo, se gliene viene data l’occasione allungano mani e sguardi infrangendo le regole del buongusto e spesso senza nascondere i loro istinti pedofili.
La scommessa è dire qualcosa di vero senza lasciarci impietrire dalla verità. Come diceva Italo Svevo “confessarsi è mentire”, le bugie sono necessarie per attingere non alla verità, ma ad un modo nostro veritiero di approcciarsi alla nostra vita presente e passata. I ricordi non sono per niente fedeli alla realtà, la storpiano, si sovrappongono e mescolano situazioni, emozioni, pensieri diversi e distanti nel tempo e nello spazio. Per causa di forza maggiore bisogna ricorrere all’invenzione. La fantasia viene in soccorso e ‘sublima’ tutto di quel quotidiano che spesso non viene inserito nella narrativa come fare la cacca o dire le parolacce. Parallelamente i traumi della vita come la morte del padre o un aborto si colorano di niente e così possono comparire nella narrazione senza nulla aggiungere. Semplicemente annunciano la loro presenza. “Ehi, guardate qua, ci siamo anche noi”.
Imparare a demistificare. La scrittrice distrugge un po’ il mito dello scrittore che si prende troppo sul serio, non insegue nessuna maestra, non proprio, ma solo il filo dei suoi imbrogli, le ‘imposture’ come le chiama lei. Dire la verità, implica, inevitabilmente per chi scrive, iniziare ad inventare. Pensate a Gesù quando parla per infondere i suoi insegnamenti religiosi: “In verità vi dico…”. Replica Veronica Raimo in una presentazione: «è un ennesimo derivato del cattolicesimo. Molto violenta questa cosa». Attenzione, non sono violente le parole di Gesù, ma la maniera di presentarle e i presupposti, il senso del dovere e i comportamenti che così è spinto ad assumere chi ascolta. «Dovrebbero dirti: racconta una storia – e non dì la verità.»
Zerocalcare trova esilarante “Niente di vero”; certo il tono è allegro e scanzonato, gli episodi sinistri sono raccontati con cinismo e autoironia, la scrittura scatena nel lettore delle gran risate sonore. Ma dietro, c’è il vissuto che in molti casi è tutt’altro che da ridere. Si percepisce un desiderio di amore che si nasconde dietro ogni piccolo gesto, come nel nome dell’autrice. Veronica Raimo è infatti l’anagramma di ‘invocare amore’. Ecco l’ennesima bugia. La protagonista con lo stesso nome dell’autrice, l’amore non lo invoca, lo ruba, lo disseziona, forse ne conserva un po’ prima che deperisca del tutto. Perché tutto finisce. Tutto muore. È meglio impararlo subito, per evitare delusioni e sofferenze future: «Anche le poche favole che scrivevo da bambina erano così. C’era una spiga che era cresciuta in un bosco. […] La storia finiva lì. A mio nonno stava bene. A me pure.» (p 163)
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
Recensione 2
Che libro strepitoso!
Ironico, sarcastico, cinico, spregiudicato, ma anche profondo, a tratti dolce e commovente, perché molto spesso attraverso l’ironia si riesce a dire tutto, anche l’indicibile… e a riparare qualcosa d’irrisolto.
Veronica Raimo sa essere esilarante e spietata nel raccontarci di sé, della sua famiglia, della sua vita, e lo fa in modo spudoratamente libero, sincero nella misura in cui può essere sincera una formazione piena di “imposture”.
Veronica ha bisogno di quelle finzioni per dare forma a se stessa, per sopravvivere ai continui muri (non metaforici) eretti in casa dal padre, all’ansia di controllo della madre, all’intelligenza prodigiosa di suo fratello che si prende tutta la scena, alla noia mortale che ha riempito intere giornate della sua infanzia, ad una nonna poco amorevole che la vorrebbe diversa, ad una società che la vorrebbe mamma…
E quindi dall’interno di questa famiglia, che come tutte le famiglie che si rispettino ha la sua buona dose di tossicità, ci arriva la sua voce fresca, irriverente, che non ha paura di planare leggera sulle cose, anche cose toste, come l’aborto, la perdita di un padre, la fine dell’amicizia, il sesso, le fughe, il sempre difficile tentativo di diventare “adulti”.
La cosa più bella è rendersi conto che in tutto questo c’è semplicemente la vita, una vita come tante… eppure specchiarcisi dentro è un po’ terapeutico, fa stare bene.
Ci fa riflettere su quanti “aggiustamenti” ci sono stati anche nella nostra vita (ad opera della nostra mente) per ritagliarci un posto più bello da vivere, più abitabile, ricordi che ci facciano sentire meglio.
“Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione piú completa della nostra identità. Talvolta ci accordiamo quantomeno il beneficio del dubbio rispetto ai nostri sabotaggi, conserviamo dentro di noi un piccolo spiraglio per ristabilire l’esattezza degli eventi, ma è molto piú frequente il contrario: dimentichiamo la menzogna iniziale o il fatto stesso che si tratti di una menzogna.”
Chi può dire, in fondo, quale sia la parte più vera di noi stessi?
Quella che ha vissuto in un certo modo o quella che abbiamo inventato per sentirci veramente noi?
Niente di vero, ma tutto di Vero(nica).
Eh, “siamo al paradosso”.
“E in effetti è quello che ho sempre fatto nella mia vita. Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci. Fino a pensare che un dado può sempre dare cinque, benché non serva assolutamente a nulla.”
Mentre leggevo questo libro pensavo: “quanto mi piacerebbe rivedere tutta la mia vita e rileggerla con i toni usati da Veronica Raimo”, quanto mi piacerebbe non solo saper scrivere così, benché io non scriva… ma proprio “pensare” così.
Essere in grado di guardarsi dal di fuori e trasformare la tragicità di una vita non straordinaria in qualcosa che straordinario lo è di sicuro.
L’ho già detto e lo ripeto: strepitoso!
Adesso però è meglio che vada, “c’è Francesca al telefono”.
(Chi l’ha letto, capirà)
Recensione di Antonella Russi
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