LA COSCIENZA DI ZENO Italo Svevo

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LA COSCIENZA DI ZENO, di Italo Svevo

Ci sono certe letture che acquisiscono valore diverso se lette in diverse fasi della vita.

“La coscienza di Zeno” è una di quelle.

Letto in età liceale lo trovai noioso e ripetitivo e, sinceramente, Zeno Cosini si mostrò, ai miei occhi, antipatico, inerte e viziato.

Ad onta dovetti studiarlo perché considerato un capolavoro della letteratura del ‘900.
Con disgusto pensai quanta stupidaggine c’era in quest’uomo che pur di non affrontare la realtà a testa alta immaginava malattie che affliggevano il suo corpo. Un uomo che pensava in un modo e agiva in un altro, che non amava pur amando (in alcuni passaggi lo ritenni pure viscido e libidinoso): comportamenti deboli e di fastidiosa inettitudine.

 

A distanza, rileggendolo, mi sono rispecchiata moltissimo in quelle scelte non volute ma portate avanti lo stesso, in quelle frasi non dette e fermamente pensate, in quel modo di agire che esula dalla propria volontà.
Rileggendolo, passo per passo, ho incontrato un uomo che viveva in una società mascherata e a tratti indefinita.
Un uomo di ogni tempo, appunto perché uomo senza tempo.

 

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Ho rivisto l’alone pirandelliano, la disperazione di Montale, l’Ulisse di James Joyce.
Una lunga confessione, minuziosa, nei tratti apparentemente insignificanti, dove aleggiano l’immaginazione e i sogni.

Realtà-immaginazione-sogni e menzogne si amalgamano in un individuo che ha avuto il coraggio di esporsi al di là della sopravvivenza.

Non certo nel coraggio di vivere ma senza ombra di dubbio nella consapevolezza di essere un uomo con i propri limiti e debolezze. Il tutto condito da una deliziosa ironia.

Le pagine finali le ho trovate cosi profondamente analitiche nella loro incessante profondità da compensare certi passaggi non di facile lettura.

In conclusione un romanzo da leggere e rileggere in cui specchiarsi e in cui specchiare. Inutile raccontare la trama che non servirebbe a nulla, se non a cercare di accostarlo ad uno schema romanzesco classico. Le regole tradizionali sono “rotte”: per la prima volta l’autore parla di sé, fa parlare la sua coscienza e “di conseguenza” fa parlare la coscienza di sé stessi, dove ci sono tutti qui movimenti interni umani che ci appartengono, in misura maggiore o minore.

 

Un romanzo glorioso che non si può smettere di leggere, specie oggi che l’indagine sull’animo umano è sostituita da tanto “sensazionalismo epidermico” che ad altro non serve che allontanarci dalla nostra natura.

“Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d’innocenza e d’ingenuità. Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m’animò. Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose di Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di più della mia vita. Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.
È cosi che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è creazione, non già menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminavano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidarietà, il calore, la petulanza delle cose vive…”

Recensione di Patrizia Zara

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