IL ROSA TIEPOLO, di ROBERTO CALASSO (Adelphi)
Di lui, lui come persona e della sua vita, si sa poco o nulla, tutti concentrati sulla sua pittura. Abilissimo nell’arte di nascondere l’arte, intesa come studio e fatica, maestro della “sprezzatura”, forse lo divenne anche riguardo il suo privato, un quotidiano vissuto in una Venezia ricolma di riflessi ed ombre, scenario teatrale vivente, scrigno lagunare di felicità ed oscurità, passandoci dentro, quasi fosse cosa liquida, trasparente. Calasso disvela un Tiepolo sorprendente, identificato totalmente con il suo modo di far pittura, focalizzato sul colore, fino a, meraviglia delle meraviglia, diventarlo lui stesso, un colore.
Ci viene consegnato, su un cuscino damascato, un ritratto puntuale ed amorevole del pittore e delle sue notevoli, innumerevoli qualità : quel sapere infondere levità e grazia quasi a proteggere il suo pensiero, fingendo che non ce ne fosse, quel trasformare tutto, Re Mida del pennello, in una grande fantasmagoria, come davanti ad un palcoscenico, con personaggi ed interpreti, una finzione che tuttavia, non inventava lui, era già nella realtà; lui non faceva altro che accentuarla. Quella sua disinvoltura pittorica, quella leggendaria celerità d’esecuzione e quel bisogno costante di irriverenza verso il sacro ed il profano, oltrechè verso i suoi potenti committenti.
Un Tiepolo sfrontato, che inserisce elementi e simboli nascosti, che si diverte a sfidare il suo pubblico, che ama rovesciare le parti e far apparire ricco il povero. Le sue donne sono portatrici di una bellezza frivola, equivoca, opulenta, talvolta volgare- che siano principesse o ninfe, dee o maghe. Illustra la storia e la gloria di casate e di personaggi di alto rango come romanzi a puntate, dove i protagonisti sono sempre un pò gli stessi, cambiano il nome, i gesti, i costumi. Dall’indole sobria e pragmatica, G.B. Tiepolo elabora un repertorio di figure e tipi fisiognomici poi ripresi, riproposti e modificati alla bisogna, quasi un catalogo di porcellane di Dresda in serie, o quasi una compagnia di attori che cambiando maschera, trucco e costume, cambiano automaticamente identità e ruoli. Stravolge assetti precostituiti, situazioni canoniche, che finiscono per assumere significati sconcertanti, sicuro che nessuno se ne sarebbe accorto. Emerge spavalderia, insolenza, ironia in un Tiepolo che nelle lettere alla sua clientela, sprofonda invece in ossequi, omaggi e gratitudine del tutto esagerati.
Per Calasso G.B. Tiepolo sarà l’ ultimo soffio di felicità, in un’Europa, in un’epoca, che sta per finire ed il soffio, la modulazione della luce, nella sua opera davvero avvolgono ogni cosa. Una pittura fortemente erotica, in ogni sua fibra, distintiva ed onnipresente , un’esaltazione costante alla frivolezza, un piacere accompagnato da luce, dirà Leibniz. Ed proprio questo suo mondo fantasioso e fatuo, sconnesso con la realtà, dissonante, così lontano dal gusto e dalle mode dell’epoca, questa sua adorazione dell’immagine, il dominio del vedere sul pensare, quell’insistenza nel dipingere l’invisibile, quella ariosità e mancanza di gravità, ecco per tutto questo, verrà non compreso per lungo tempo, se non ignorato, disprezzato e maltrattato da un ambiente insofferente alle sue bizzarrie, alla sua insanabile ed incontenibile necessità di prodigi. Tiepolo non dipinse però solo soffitti con cieli gremiti di figure volteggianti.
E’ in opere dipinte in libertà, senza acquirenti e committenti, che rivela il suo lato saturnino, con una predilezione per soggetti esoterici, demoniaci, enigmatici. Serpenti crocefissi, maghi orientali, filosofi, are sacrificali, roghi misterici, necromanzie, profeti, gufi popolano le 33 incisioni dei “Capricci e Scherzi di Fantasia”, in un’ inquietante alleanza fra le potenze invisibili e le creature di carne, e qui in realtà non si scherza affatto. Quando Tiepolo scomparve, anche le sue prodigiose opere si persero nella memoria, rimosse per un secolo, quasi non fossero mai esistite. Nessuno aveva realmente compreso le sue vere peculiarità, e lui fu particolarmente abile nel celarle, come se non mostrando sostanza, oltre l’apparenza, non ce ne fosse. Invece ce ne era, e tanta.
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