Abbiamo intervistato la scrittrice Ben Pastor che ci ha parlato del suo ultimo romanzo “La fossa dei lupi”, dei suoi personaggi “storici” e del…

Intervista n. 199

Abbiamo intervistato la scrittrice Ben Pastor che ci ha parlato del suo ultimo romanzo “La fossa dei lupi“, dei suoi personaggi “storici” e del legame tra le loro avventure e la realtà contemporanea.

 

Ben Pastor

 

Come prima domanda le chiedo quale è stata la molla che l’ha spinta a intraprendere un percorso come quello di dare un seguito a “I Promessi sposi”? Parliamo certamente di un’opera che, insieme alla “Divina Commedia”, ha superato il suo status entrando a far parte viva della nostra cultura e quasi del nostro vivere quotidiano. Quali sono state le difficoltà e le sfide legate a questo lavoro?

La risposta ironica potrebbe essere la stessa di Sir Hillary, lo scalatore dell’Everest, che alla domanda perché lo avesse fatto, replicò: “Perché è là”. Obbligatorio nelle scuole italiane fin dal 1870, mentre il Manzoni era ancora in vita, il romanzo sui Promessi Sposi è un caposaldo della scrittura, lettura e cultura nazionale. Come tale, e in parte anche perché inevitabile nel percorso di studi, è stato amato, detestato, subìto e sofferto. Avendolo apprezzato fin dal mio primo incontro, per me si è trattato di rivisitarlo negli anni scoprendone da adulta la molteplice ricchezza narrativa e gli spunti nascosti qua e là nella trama. Sono stati proprio questi ultimi a permettermi di riprendere, dapprima con timore reverenziale e man mano con affetto sempre più complice, i suggerimenti dell’Autore al fine di sviluppare un nuovo tessuto. Lungi da me presumere di poter competere con Don Lisander. La mia non è una sfida. Ho voluto lietamente pormi e soddisfare la domanda: cosa succede dopo che Renzo e Lucia convolano a nozze e partono per la Bergamasca? Cosa si lasciano dietro, e quanti dei personaggi noti, da Don Abbondio ai bravi al Cardinal Borromeo, incappano in altre avventure? Grazie alla chiave investigativa ho potuto mantenere una leggerezza avvincente, mentre l’attenzione alla lingua manzoniana e lo sviluppo in tono laico degli amori e scandali appena accennati nell’originale hanno assicurato al contempo fedeltà al testo e originalità pensata per un disinvolto pubblico contemporaneo. La difficoltà maggiore è stata quella del tuffo da un trampolino molto alto; fatto quello, nuotare è venuto naturale.

 

 

Quando ci si confronta con un grande classico c’è sempre il rischio dell’ “emulazione”. Trovo che invece lei abbia mantenuto intatta e ben presente la sua identità e il suo stile e sia riuscita a realizzare un romanzo di grande personalità e al contempo rispettoso e coerente con “I Promessi Sposi”, si riconosce in questa disamina?

Sicuro, e la ringrazio per averlo notato. Imitazione ed emulazione sono rischi per chi scrive anche quando non ci si trova dinanzi a un capolavoro. Era necessario conservare per quanto possibile la propria voce, pur rendendo omaggio alla prosa splendida, commovente e spiritosa del Manzoni. Ogni personaggio di invenzione, a cominciare dal protagonista Diego Antonio de Olivares, è stato ideato tenendo presente quali elementi fisici e caratteriali avrebbero potuto stimolare Manzoni a descriverlo. Lo stesso vale per il contesto geografico e le descrizioni. Nell’Ottocento ci si cimentò più volte con temerarie riscritture e addirittura correzioni del testo originale, producendo strani risultati. Io ho scelto di lavorare sul mio telaio, per così dire, usando un ordito conosciuto ma intessendolo di nuovi disegni.

 

Un’altra cosa curiosa che ho notato è la scelta di chiamare con il loro nome reale i personaggi su cui Manzoni aveva lasciato un alone di mistero, in primis l’Innominato, quasi come se la peste e i lanzichenecchi avessero mostrato alla gente quali fossero i veri pericoli di fronte ai quali anche un signorotto crudele appare in secondo piano, non so se condivide.

Un contagio mortale, per noi che abbiamo recentemente attraversato il Covid-19, è stato fra le molte cose un motivo di risveglio e di ripensamento. Manzoni, scegliendo di ambientare il romanzo durante la peste del 1629-1631, sfuma i colori dei suoi personaggi tacendone spesso il casato, o travisandolo addirittura. Era del resto un uomo prudente, apparentato con parecchie delle famiglie importanti del Milanese. Scrive “Spagnoli” ma fa intendere Austriaci; chiama uno degli innumerevoli Visconti Conte del Sagrato o Innominato; tace i cognomi di Rodrigo, Attilio, del Conte Zio, di Don Ferrante e Donna Prassede. Soprattutto, evita di identificare direttamente Marianna de Leyva in Gertrude e Gian Paolo Osio in Egidio. Si dibatte sulla correttezza di far agire personaggi realmente esistiti (quali gli ultimi due) come se fossero di invenzione. Oggi non abbiamo più problemi del genere. Ho liberamente elargito cognomi a quanti fra i personaggi originali non ne avevano, e quelli nuovi sono debitamente forniti di appellativi, parentado e luogo di origine.

 

 

Anche noi siamo passati per un’epidemia e ci troviamo in una situazione di guerra, anche se in questo caso fuori dai nostri confini, ed è curioso come Manzoni abbia raccontato dei momenti che abbiamo poi vissuto ai giorni nostri in modo analogo (penso alla fuga delle persone con l’arrivo della peste). Quante analogie possiamo trovare tra Manzoni e la nostra realtà è quanta modernità possiamo vedere in questo autore?

Mi pare che uno dei segni della validità di un’opera letteraria sia proprio la capacità di illustrare la condizione umana, e quindi di essere sempre attuale. Impossibile non trovare paralleli contemporanei con la fuga da rifugiato di Renzo nello Stato Veneto, o con la madre che sorregge la figlioletta morta fra le braccia; sono immagini che ci colpiscono sui media ogni giorno. In Manzoni, la guerra e il contagio svuotano città e campagne, creando dissesti economici: succede anche oggi. Giovani donne vengono sequestrate a scopo di violenza: succede anche oggi. Le fasce deboli della società faticano a tirare avanti: non è cambiato niente da allora. La superstizione, oggi non meno che nel Seicento, trova terreno fertile ovunque. Nemmeno la tortura dei detenuti è sconosciuta al mondo moderno. Se c’è un elemento essenziale nell’universo manzoniano che invece scarseggia nella nostra quotidianità, è il senso del sacro, e di questo penso che possiamo solo rammaricarci.

 

Con quali aggettivi descriverebbe il personaggio incaricato di far luce sul delitto e la sua amata Donna Polissena? Personalmente ho trovato la loro vicenda molto interessante e ben inserita nel contesto del romanzo, tenendo conto che lo stesso Manzoni non seguiva un filo unico nella narrazione.

Manzoni elude elegantemente le regole del teatro aristotelico: unità di tempo, di luogo e di azione. Il suo romanzo si svolge nell’arco di due anni, in regioni e città diverse, con notevole varietà di personaggi e di vicende. Mi sono concessa le stesse libertà nel creare il venticinquenne luogotenente di giustizia italo-spagnolo Diego Antonio de Olivares e la giovane vedova che gli fa quasi dimenticare il desiderio di unirsi alla Compagnia di Gesù e morire martire in terre lontane. Diego è figlio della sua casta e dei suoi tempi ma pacato e privo di superbia, ligio al dovere senza perdere umanità, amabile e coraggioso. Donna Polissena – bella, ricca, colta, scienziata – ha un carattere volitivo sotto l’apparenza di signora vanesia se non frivola. Si comportano entrambi secondo le regole sociali del tempo, mitigate dalla loro appartenenza a un ceto che accorda molti privilegi. Quando si incontrano, è come avvicinare l’esca all’acciarino, e la scintilla non può tardare.

 

Ben Pastor

 

 

Ci sarà la possibilità di ritrovarlo in altre opere?

Ho l’impressione che ci sia un interesse editoriale nel far tornare Olivares come protagonista di altre indagini e avventure. Ho creato La fossa dei lupi come un omaggio esplicito a Manzoni e quindi come un unicum. Qualsiasi nuova apparizione di Olivares dovrebbe necessariamente reggersi sulle proprie gambe letterarie, magari reintroducendo figure come quella dello svagato cugino Galeazzo Arconati, del focoso capitano Grauenbart, dell’erede di Don Rodrigo Cesare Trussi, e dei collaboratori del luogotenente, i bargelli Monti, Carnaghi e Colombo. Non mi dispiacerebbe scoprire a cos’altro si sta dedicando Donna Polissena Gallarati, né se ne ha combinate una delle sue il curato Abbondio Romanò… Del resto il carattere di Olivares è già stato ampiamente elaborato in due novelle (“Il cavaliere, la morte e il diavolo” e “Chi ha paura di Suor Virginia?”)  ambientate durante la peste tra Milano, la Brianza e la Lomellina.

 

 

Cambiando argomento e guardando alla sua produzione letteraria, non posso fare a meno di chiederle qualcosa riguardo gli altri protagonisti delle sue opere, cominciando da Martina Bora. Le chiederei come è nato questo personaggio e quali erano le sue aspettative al riguardo?

Diciamo che Martin Bora non nasce come scelta di comodo. Definito “l’uomo giusto nell’uniforme sbagliata”, “eroico, erotico ed ironico”, vive ed opera all’interno di un contesto storico e politico aberrante come quello del III Reich in guerra. Non solo. È un soldato di carriera, prestato all’investigazione grazie al suo lavoro nel controspionaggio sotto il comando dell’ammiraglio Canaris. La sua adesione alla fronda antinazista fin da subito, e all’attività di contrasto e resistenza poi non sembrano contraddire il suo valore sul campo di battaglia. Il personaggio è nato dallo studio dell’opposizione all’ideologia hitleriana all’interno dell’esercito tedesco, tra ufficiali cattolici come Stauffenberg (Operazione Valchiria), lo stesso Canaris, e aristocratici della vecchia scuola come Moltke. Le mie aspettative per Bora e le sue avventure non sono mai cambiate negli oltre trent’anni della nostra frequentazione reciproca. Mi interessa raccontare da una prospettiva eterodossa la guerra vissuta dalla generazione che mi ha preceduto, senza perdere di vista il dilemma morale in cui fatalmente un uomo di coscienza trova a dibattersi, pronto a mettere a rischio la carriera e la vita.

 

 

La sua storia mi ha fatto ripensare a un grande romanzo tanto spietato quanto formativo come “Ognuno muore solo” di Hans Fallada e in generale a come fosse visto il Reich con gli occhi dei tedeschi stessi. Le chiedo se secondo lei erano così in minoranza i “Martin Bora” nell’esercito nazista

Premetto un’osservazione. Perfino in regimi democratici l’opinione pubblica troppo spesso è conformista; si teme di essere fraintesi, annoverati fra i seguaci di politiche condannate dai più o semplicemente fuori moda, eccentrici o da mettere all’angolo. A parte alcune voci discordi e quasi eretiche, si cerca di risultare sempre in sintonia col sentire generale, che muta di volta in volta, con risultati a volte paradossali di ribaltamento completo. È la prima volta, a mia memoria, che il pacifismo è giudicato politicamente scorretto se non pericoloso. Ricordo molta più libertà di pensiero negli anni sessanta e settanta, quando ideologie avverse a scuola o sul lavoro non comportavano odio e disprezzo reciproci.

In uno stato dittatoriale come quello del III Reich possiamo facilmente immaginare il terrore di deviare dal seminato. Le punizioni per i dissidenti includevano il lager, la tortura e la ghigliottina. Ciò valeva anche per una dittatura di segno uguale e contrario come quella stalinista. Non stupisce quindi se la maggioranza dei tedeschi (e dei russi) tacesse anche quando disapprovava gli orrori dei rispettivi regimi. Ne andava non solo della propria carriera e vita, ma anche di quella dei propri cari. Quanti di noi avrebbero il coraggio di dissentire, nelle stesse circostanze? Quello che meraviglia davvero fu la minoranza di donne e uomini dal carattere eroico, noti o di cui non sappiamo nemmeno il nome, che a Berlino o a Mosca espressero nelle parole e nei fatti il loro dissenso, sovente pagando il prezzo più alto per la loro dirittura morale. A loro, quale che fosse il loro numero reale, va la gratitudine di noi tutti per averci lasciato la libertà.

 

I romanzi con Martin Bora sono usciti in ordine diverso rispetto alla cronologia della sua vita. Lei con quale consiglierebbe di partire? C’è un ordine che suggerirebbe di seguire?

Dipende dai gusti di chi legge. La serie, finora di dodici romanzi e un’antologia di racconti con Martin Bora, è stata concepita in modo da poter prendere in mano ogni singolo libro senza perdere il filo, perché ogni rimando ad altre vicende è spiegato o anticipato nel testo. Secondo me Lumen (Polonia 1939) e La sinagoga degli zingari (fronte russo, 1942-3) hanno rispettivamente il pregio di calare il personaggio in un ambiente che ne mostra subito il carattere, e successivamente nell’apocalisse di Stalingrado. Per chi volesse anche note sul background familiare e amoroso di Martin, la scelta migliore potrebbe essere La canzone del cavaliere (Spagna 1937), in cui lo troviamo ventitreenne volontario tedesco nella legione straniera spagnola. Chi preferisse procedere con ordine più di quanto non abbia fatto io stessa, può comodamente seguire la linea cronologica dal ’37 all’inverno 1944-5 attraverso La canzone del cavaliere, Il signore delle cento ossa, Lumen, I piccoli fuochi, La sinagoga degli zingari, Il cielo di stagno, La notte delle stelle cadenti, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, il morto in piazza, La Venere di Salò e La finestra sui tetti (un’antologia di racconti con il protagonista che coprono l’arco del conflitto). Senza però dimenticare che sto lavorando a Lo specchio del pellegrino, ambientato nell’Odessa ucraina del 1941.

 

 

Facciamo un passo indietro nella storia è parliamo di Karol Heida e Solomon Meisl, protagonisti di due opere ambientate all’alba del primo conflitto mondiale. Come li presenterebbe a chi non li conosce?

Se chi volesse leggerne conosce anche solo un po’ la città di Praga, il clima folle ed entusiasta che precedette la Grande Guerra e l’esplosione artistica e scientifica dell’epoca, si troverà un notevole passo avanti.  Ma anche ignorando del tutto gli eventi, dovrebbe risultare facile simpatizzare con personaggi come Heida e Meisl. Intanto, appartengono a due minoranze etniche e linguistiche: il primo è un praghese di lingua ceca e il secondo un ebreo cresciuto parlando yiddish. Ventiquattrenne ufficiale dei Lanceri il primo, e noto sessuologo sui cinquanta il secondo, vivono e si muovono nell’ambito germanofono dell’Impero austro-ungarico nel 1914. Divengono amici nonostante siano molto diversi fra loro; insieme, risolvono un gran numero di casi criminali legati alle superstizioni della Boemia, ai vampiri di Valacchia, alle leggende ebraiche e al vibrante miscuglio etnico-religioso di un mondo che include artisti, attrici, morfinomani, mariti gelosi, agenti dell’Agenzia Pinkerton, Freud, Kafka, e perfino anarchici che preparano attentati contro l’erede al trono imperialregio. L’entusiasmo di Heida e la saggezza di Meisl hanno ragione di tutte le difficoltà, mentre già sullo sfondo si addensano nonostante la calura estiva le nubi di tempesta che dureranno fino al 1918.

 

 

Sentiamo sempre più spesso parlare ai giorni nostri di pericolo di un nuovo conflitto mondiale e leggendo le avventure di Heida e Meisl si percepisce la tensione verso qualcosa che sta per scoppiare. Non trova che anche qui ci sia un certo legame con la situazione che stiamo vivendo oggi?

Si potrebbe dire che si è facili profeti in un mondo che non sembra avere imparato niente dai disastrosi conflitti e guerre civili che hanno annientato un terzo della popolazione europea nel XX secolo. Personalmente, trovo insopportabile il bellicismo contemporaneo. La facilità con cui uomini e donne della politica internazionale che non hanno mai visto un campo di battaglia in vita loro parlino di missili a lungo raggio, droni armati, aerei da bombardamento e quant’altro strumento atto a offendere è sconcertante. A mio modesto avviso, al di là della vuota retorica moralista, è ora che gli sforzi di ogni paese (e intendo proprio ogni paese) siano tesi alla composizione pacifica dei conflitti attuali. Forse i capi di governo dovrebbero passare meno tempo a posare davanti agli schermi TV e più tempo a leggere cosa succede a un corpo colpito dalle radiazioni nucleari, al disintegrarsi della pelle e allo sciogliersi delle ossa, a forme devastanti e incurabili di cancro che continua a uccidere per generazioni. Quanti fra noi si sentono “annientati” da una critica malaccetta o da un “post” negativo pensino a cosa significa essere sepolti sotto un edificio distrutto, abbandonati a soffocare o a dissanguarsi lentamente. Quella è la guerra, e si cura solo con la pace.

 

E tornando indietro nel tempo arriviamo al personaggio di Elio Sparziano. Come le è venuta l’idea di creare una serie di giallo storici in uno dei periodi forse meno conosciuti dell’Impero Romano?

Il variegato mondo della giallistica e della narrativa storica è frequentato da investigatori di ogni tipo. Stupisce un po’ che il lungo periodo del cosiddetto Dominato, guidato da imperatori-soldato nati fuori dall’Italia (Soldatenkaiser nella saggistica mitteleuropea) non sia visitato spesso dai romanzieri. Sono oltre due secoli di riforme epocali, con un esercito romano che raggiunge i due milioni di unità dislocate fin quasi alla Via della Seta, segnato da attentati, disfatte, vasti movimenti di popoli, dalla presenza ormai trisecolare del cristianesimo e dai fermenti che porteranno alla nascita degli stati nazionali. L’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli fu tra i primi a riconoscere l’importanza di quest’epoca, legata a correnti artistiche che prefigurano il medioevo. Mi sembrava quanto mai adatto creare un protagonista che rappresentasse la società di allora: pagano, nato povero sul Danubio, funzionario e ufficiale di Corte, storico e biografo imperiale. Ho mutuato il nome Elio Sparziano dall’Historia Augusta, una serie di tarde biografie da Adriano in poi, e grazie alla sua professione ho potuto farlo viaggiare da un capo all’altro dell’Impero, investigando su strani casi criminali a nome del governo.

 

 

Quali punti di contatto trova tra il suo personaggio e la realtà di oggi e cosa vorrebbe che ci trasmettesse con le sue avventure?

Elio è esperto e dal carattere positivo, prodotto di un secolo nel quale l’appartenenza alle forze armate apriva la via del successo economico e di prestigio. Si può dire lo stesso degli eserciti britannico e americano dal XIX al XX secolo incluso. Come pure la carriera ecclesiastica, quella militare da sempre permette di scalare i gradini della società fino ai vertici. Il mio protagonista si muove in un contesto caratterizzato dal graduale dissolvimento delle certezze: benché ancora possente, l’Impero è da generazioni in mano a uomini che spesso non hanno nemmeno mai visitato Roma; ai confini si ammassano milioni di migranti spinti da guerre che hanno origini lontane come l’Asia centrale; la religione tradizionale traballa sotto i colpi di nuove credenze e superstizioni. Gli intellettuali rimpiangono un passato dalle forti connotazioni ideologiche e morali, e lamentano la confusione del presente.  Insomma, un mondo che somiglia molto al nostro, multipolare e confuso. Se ci sono lezioni da imparare dalle avventure di Sparziano, secondo me sono l’invito al coraggio personale, come al rifiuto delle mode e delle vanità superflue. Una solidità caratteriale, allora come oggi, è tanto più necessaria quanto le circostanze diventano inaffidabili.

 

Tra Elio Sparziano e gli altri protagonisti dei suoi romanzi passa un bel po’ di anni, le è capitato di immaginare un altro personaggio e se sì in quale periodo storico le piacerebbe farlo muovere?

Con La fossa dei lupi ho avuto modo di visitare e apprezzare il XVII secolo, che in precedenza non era la mia epoca prediletta. Olivares si è aggiunto ai quattro protagonisti esistenti con una sua dignità morale e l’entusiasmo della giovinezza. A parte questo, devo dire di avere considerato come ambientazioni cronologiche possibili il XII e XIII secolo. Tuttavia il medioevo è affollatissimo di ottimi personaggi e romanzi, perciò dubito che potrei aggiungere qualcosa di molto originale. Da appassionata di uniformologia, devo prima di tutto individuare un periodo in cui si indossino vesti che mi soddisfano esteticamente, il che riduce il campo delle possibilità. Per il momento mi affido a Martin Bora e ai suoi colleghi di altre epoche, senza tuttavia chiudere la porta a nuove idee!

 

 

Personalmente ho sempre trovato il romanzo storico un genere letterario di grande valore, capace di divulgare all’interno di una vicenda narrativa elementi del nostro passato più o meno noti che al contempo ci danno una visione più ampia del nostro passato e di come la storia sia fatta di corsi e ricorsi. Qual è la sua opinione a riguardo e quali sono i presupposti da seguire per avventurarsi in un genere di tale spessore?

Concordo sul potenziale valore di un romanzo storico che risponda alla definizione, presentando un’attenta disamina dell’epoca in cui è ambientato e innestando su di essa personaggi e vicende create ex novo. A mio avviso e nella mia esperienza, per scriverne uno è bene cominciare con la padronanza del periodo storico e della sua società, del linguaggio, della cultura e dei comportamenti individuali, per evitare goffi anacronismi o l’impressione di trovarsi davanti personaggi moderni in costume. Com’è ovvio, questo approccio filologico non implica affatto una prosa incomprensibile o il perdersi in preziosismi inutili. Manzoni rese eminentemente leggibile il suo capolavoro senza tralasciare un’ambientazione meticolosa e personaggi vivacissimi nonostante siano calati appieno nel loro Seicento. Attraverso I Promessi Sposi si imparano o reimparano – divertendosi – la storia del governo spagnolo in Italia, la Guerra dei Trent’anni, l’impatto della peste sulla popolazione e sull’economia e molte cose sull’essere italiani che i libri di testo spesso dimenticano di dirci.

 

Le chiederei adesso qual è il suo rapporto con i Social, sempre più strumento di condivisione e di scambio culturale più o meno feroce.

Ottima domanda. In un’epoca durante la quale i governi sono sempre più lontani dall’opinione pubblica, e i pochi spazi dedicati alla cultura sul cartaceo sono esigui, ben venga un modo di comunicare più diretto e capillare. Permette di informare, avvertire, cautelare, quasi in tempo reale. Tuttavia, per quel che posso osservare, lo strumento stesso dei cosiddetti social media presenta diverse problematicità. Nei casi peggiori, somiglia sempre più alla parete di un sottopassaggio sulla quale ognuno lascia detta la sua, in forma di graffito o di sigla eseguita con la vernice spray. C’è di tutto, dalla lode sperticata all’insulto, alla minaccia, all’osservazione banale e inutile. Stupisce che perfino personaggi noti del mondo della cultura, intesa in modo assai lato, cerchino e trovino spazio sul muro già ingombro per fare e disfare i VIP, gli avversari politici, i concorrenti; comunicano non richiesti faccende private o privatissime come le scelte amorose o di genere, o le malattie… Non mi riconosco affatto in tutto ciò. Amo, rispetto, e mi servo ampiamente dei buoni siti di ricerca e divulgazione, utilissimi e ormai imprescindibili. Quanto alle chiacchiere, sono già in tanti a farle: non hanno certo bisogno di me.

 

Come ultima domanda, ringraziandola di cuore per la sua disponibilità, per tirare un po’ le fila le chiedo se ci sarà mai la possibilità di avere una trasposizione filmica di alcuni dei protagonisti dei suoi romanzi. Trovo che siano ben caratterizzati e la particolare cornice storica che li accompagna sarebbe a mio avviso ideale per questo tipo di formato.

Sono io che la ringrazio per la cortesia e il tempo che ha dedicato alla mia scrittura con le sue attente domande. Proprio in questi giorni ho venduto i diritti cine-televisivi pertinenti a La fossa dei lupi. È il primo passo di un processo come lei sa lungo e complicato, che presenta grandi vantaggi e contempla anche qualche rischio legato alla trasposizione più o meno fedele del romanzo. Aspettiamo e vedremo. Quanto agli altri protagonisti, se Martin Bora può essere considerato un personaggio scomodo o controverso, questo non è vero di Heida e Meisl, o di Sparziano. Nel mondo anglosassone, si sa, le fiction storiche sul grande schermo e soprattutto sulle piattaforme private sono molto seguite; spaziano dall’antica Roma al medioevo vero o fantastico, fino a tutti i periodi della modernità, dal XVI secolo in poi. Hanno successo anche presso il pubblico italiano, quindi… Se son rose, avranno modo di fiorire.

Intervista di Enrico Spinelli

 

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