UNA DONNA Sibilla Aleramo

UNA DONNA, di Sibilla Aleramo (Feltrinelli)

 

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Recensione 1

 

“Il diritto alla vita non si fa vanto del sacrificio imposto o della negazione impartita. Si manifesta con ardore spesso dopo tragici eventi e dopo aver estirpato l’accettazione del male. Ai nostri figli deve giungere un’immagine di donna forte, libera. Non vi sono disuguaglianze fra generi. Ma ancora oggi non sembra essere una verità di tutti.

Pubblicato per la prima volta nel 1906, il famoso romanzo di Sibilla Aleramo ebbe subito successo sia in Italia che all’estero. Il successo era dovuto in parte al talento della scrittrice, in parte all’argomento trattato. “Una donna” è uno dei primi libri femministi apparsi in Italia. Come scrive Emilio Cecchi nella postfazione, «con l’Aleramo, non si trattava più di un’autrice, d’una artista soltanto: si trattava anche d’una rivendicatrice della parità femminile, d’una ribelle». Oggi, dopo più di un secolo, e in una nuova era dove il femminismo è diventato intersezionale e difensore dei diritti di tutti i generi e non generi, la storia di una donna che si ribella e rinuncia al figlio pur di conquistare la propria indipendenza e libertà si conferma come “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf, una delle pietre miliari del femminismo.

 

 

“Una donna” fu pubblicato sotto lo pseudonimo di “Sibilla Aleràmo”, suggerito da Giovanni Cena, che trasse il cognome Aleramo dalla poesia di Giosuè Carducci Piemonte, e da allora divenne il suo nome nella letteratura e nella vita. Prima l’autrice si chiamava Rina Faccio (Alessandria, 1876 – Roma, 1960); fu giornalista, scrittrice, poetessa, femminista, donna libera e indipendente.

Attiva nel movimento femminista, se ne allontanò poco dopo, giudicandolo «una breve avventura, eroica all’inizio, grottesca sul finire, un’avventura da adolescenti, inevitabile ed ormai superata», avvicinandosi persino al fascismo per un breve periodo, prima di capirne la vera natura. Si trattava allora, secondo lei, di rivendicare ed esprimere la diversità femminile: «Il mondo femmineo dell’intuizione, questo più rapido contatto dello spirito umano con l’universale, se la donna perverrà a renderlo, sarà, certo, con movenze nuove, con scatti, con brividi, con pause, con trapassi, con vortici sconosciuti alla poesia maschile». Fu pacifista, dopo il 1945 convinta comunista, e mai si lasciò ingabbiare da ruoli o immagini femminili tradizionali. Libera in tutto anche di muoversi in relazioni amorose oltre il genere, omosessuali e non, venne chiamata da Giuseppe Prezzolini “lavatoio sessuale della cultura italiana”. Forse non le aveva perdonato la relazione con Giovanni Papini. Certo, in queste sue parole, si legge tutto il mondo ostile maschile nei confronti dell’universo femminile fuori dal contesto casalingo e dai ruoli prestabiliti dal contesto socio-istituzionale.

 

 

Ma la statura dell’Aleramo è tale da non farsi definire e limitare da pregiudizi e giudizi pesanti. Altri invece ne colgono la straordinarietà. Così descrive Sibilla Aleramo, Cesare Pavese: «Scontrato un tipo, senza dubbio eccezionale. S. A. Non sentito il minimo impaccio. Lo comprendo totalmente. Sono più ricco di lei. Non soltanto perché più giovane, ma in assoluto. So cos’è la forma; lei non lo sa. Eppure lei è il fiore di Torino 900-10. Mi commuove come un ricordo. C’è in lei Thovez, Cena, Gozzano, Amalia, Gobetti. C’è Nietzsche, Ibsen, il poema lirico. Ci sono tutte le esitazioni e i pasticci della mia adolescenza. Lontana. C’è la confusione di arte e vita, che è adolescenza, che è dannunzianesimo, che è errore. Tutto vinto e passato.» (“Il mestiere di vivere”, postumo 1952)

 

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Sibilla Aleramo, al di là di quello che pensava l’intellighenzia maschile del suo tempo, fu un personaggio importante che seppe vivere la propria vita secondo il proprio pensiero.  Come scrive Anna Folli nella prefazione: «la storia di “Una donna” non finisce col libro. Incapace di scrivere altro che di sé, Sibilla continuò a romanzarsi in prosa e in versi, sempre dedita alla sua leggenda.»

 

 

Indubbiamente, “Una donna” presenta nuovi orizzonti e non lascia indifferenti i suoi primi lettori. Per Massimo Bontempelli: «è un lavoro di una precisa e profonda verità psicologica e anche molto interessante. E vi sento una vastità d’orizzonte». Uno degli obiettivi primari della narrazione, è infatti quello di far vedere l’evolversi della protagonista. Sempre dalla prefazione di Anna Folli, leggiamo: «il modello che Sibilla ha in mente è il romanzo di formazione, il Bildungsroman goethiano che conosceva bene, non c’è dubbio; l’unico che nella sua durata può trasformare la protagonista in eroina.» Subito avverte il contrasto fra il proprio sentire e il mondo esterno: «neppure il babbo cercava di conoscermi per intero. Certe volte mi sentivo proprio sola. M’avvolgeva allora uno di quegli stupori meditativi che costituivano il secreto valore della mia esistenza.» (p 5)

 

 

Il padre, figura di grande respiro, iconoclasta e anticonvenzionale, rappresenta un mondo che abbraccia con ardore. Quando le propone di lavorare per lui, accetta e vive senza timore questa sua esperienza fuori dalle mura domestiche: «Le donne di servizio dovevano riferire in paese cose orrende sul mio conto: non prendevo mai un ago in mano, non badavo alle faccende di casa…» (p 12). Ma, nonostante sapesse che «il matrimonio era un’istituzione sbagliata: il babbo lo diceva sempre» (p 22) Rina Faccio come la protagonista di “Una donna” rimane ferita quando scopre che il padre ha un’amante e peggio ancora, rimane vittima di un concatenarsi di violenze e vicende che la chiuderanno nell’istituzione del matrimonio e dentro le mura domestiche. Solo allora, capirà il destino atroce delle donne, «Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo è il destino suo o forse di tutte le donne?» (p 41) Di sua madre, in primis: «Povera, povera anima! Non le erano valse la bellezza, la bontà, l’intelligenza. La vita le aveva chiesto della forza: non l’aveva.» (p 41)

 

 

L’autrice femminista racconta in “Una donna”, la sua storia; la sua nascita con il nome di Rina Faccio e lea sua rinascita con il nom de plume Sibilla Aleramo. Non aveva scelta. Non poteva rinunciare a se stessa. Rinunciò a tutto, anche al figlio tanto amato, pur di diventare quello che voleva essere: una persona libera. E la scrittura divenne essenziale per andare in quella direzione, così s’intuisce quando parla di una lettera scritta per un uomo, il primo che turba i suoi sentimenti fuori dal matrimonio: «era uno scritto sincero, […] rileggendolo, prima di spedirlo, mi parve di aver scritto per me sola, d’aver sintetizzato la mia anima, e come uno sfacelo avvenne in me; io compresi per la prima volta tutto l’orrore della mia solitudine, sentii il gelo dei miei vent’anni privi d’amore, e piansi un lungo pianto desolato e selvaggio, cessato il quale seppi la misura della mia miseria.» (p 57)

 

 

Ma il vero destinatario di tutto il libro, non sono gli uomini in generale, tanto meno, gli amanti, i mariti o gli amici, nemmeno il padre sarà considerato in questo senso. Il vero destinatario è il figlio, che le è stato tolto. Rina Sibilla è consapevole che il suo sacrificio è necessario in quanto non vuole contribuire con un’identità falsa a perpetuare costruzioni del sé stereotipate. Sa che non vuole un figlio, frutto di questa cultura, dove da qualche parte anche le madri sono responsabili, per non cercare altre soluzioni, altri ruoli, altre facce della propria identità. Per accettare passivamente vite decise dagli altri, spesso intrise di soprusi e prepotenze. «Un giorno avrà vent’anni. Partirà, allora alla ventura, a cercare sua madre?» (p 165)

Il dubbio la logora, tanto da pensare che non accadrà, che suo figlio non verrà a cercarla, che solo dopo la sua morte scoprirà la verità, tenutagli nascosta dal padre e della società che condannava le donne che abbandonavano il tetto coniugale. «O forse non sarò più… Non potrò più raccontargli la mia vita, la storia della mia anima… e dirgli che l’ho atteso per tanto tempo.» (p 165)

 

 

«Via crucis della sua solitudine» lo definisce Emilio Cecchi «simile a quella di tante altre creature muliebri.» (p 170). Strutturato con un impianto letterario, un vero romanzo, dice Maria Corti, la grande filologa, critica letteraria, scrittrice, semiologa e accademica italiana.

“Una donna” letto nell’adolescenza, è stato per me un mito per tanti anni. Una rilettura in età matura mi restituisce per intero il ritratto vibrante di una donna che è morta povera ma libera.

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

 

Recensione 2

Sibilla Aleremo, alias Rina Faccio, è una figura molto interessante nella letteratura del nostro 900 e e il suo romanzo pubblicato nel 1906, si può definire il primo scritto femminista in Italia.

 

Quest’opera non si può dire un diario perché non ci sono dati giornalieri, non è nemmeno un romanzo perché non è un’invenzione in quanto i fatti raccontati sono sostanzialmente autentici, si tratta quindi di una testimonianza, una narrazione in prima persona, in cui l’autrice descrive la sua infanzia libera e spensierata, il suo rapporto con il padre, un uomo duro, dedito al lavoro e apparentemente progressista che lei idealizza ed innalza a modello di uomo perfetto.

 

 

Fino a quando, durante l’adolescenza, tutta cambia rapidamente, l’uomo si allontana dalla famiglia conducendo una doppia vita e mortificando le aspettative della moglie, una donna infelice e fragile, quasi schiacciata dalla figura ingombrante del marito chiudendosi in se stessa e rinunciando quasi a vivere.

Questo libro, scritto veramente bene, non è interessante solo come storia in sé, ma come riflessione sociale; infatti il lettore viene coinvolto nel processo di maturazione di questa giovanissima donna che facendo appello solo a se stessa, e dolorosamente, prende coscienza di sé, della sua condizione e sul suo ruolo all’interno della famiglia e della società.

 

 

Sibilla compie una approfondita analisi della sua vita e della sua condizione, che la porterà alla dolorosa necessità di abbandonare marito e figlioletto nel disperato tentativo di non perdersi.

Sibilla è costretta a scegliere tra il suo ruolo di moglie non amata, tradita, umiliata, maltrattata e l’abbandono del suo amato figlio, sceglie di percorrere un’altra strada che le permetta una vita più dignitosa ma autonoma. Questo lungo percorso la riconcilia con la madre che era stata costretta a subire altrettante umiliazioni , tradimenti, disillusioni ai quali si era piegata pur di mantenere il suo ruolo di di madre e moglie , solo per poi perdere la ragione.

L’elemento sociale quindi, che rende attuale quest’opera, è proprio il percorso che induce Sibilla a rifiutare il ruolo di marito padrone, e quindi di non volere vivere una vita senza amore sempre assoggettata al ricatto del giudizio della gente.

Recensione di Patrizia Franchina

UNA DONNA Sibilla Aleramo

 

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