OGNI MATTINA A JENIN Susan Abulhawa 

OGNI MATTINA A JENIN, di Susan Abulhawa

 

Una storia terribile di violenza, perdite, lutti, sofferenze inenarrabili in una Palestina in cui “l’anno 1948 andò in esilio dal calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico”. È la storia di una famiglia palestinese tra quel 1948 e il 2002, con le sue quattro generazioni inevitabilmente segnate dagli avvenimenti della Storia. C’è rabbia, tanto dolore, alcune pagine sono un pugno allo stomaco, ma c’è anche la consapevolezza che un’altra Storia è possibile purché venga spezzata la catena dell’odio e delle recriminazioni: lo dimostra l’amicizia tra Hassan e Ari, nata prima di quello stesso 1948 “all’ombra del nazismo in Europa e nel solco sempre più profondo tra arabi ed ebrei in patria” e che “andò consolidandosi nell’innocenza dei loro dodici anni, nella poetica solitudine dei libri e nel comune disinteresse per la politica.

Decenni dopo che la guerra ebbe separato i due amici, Hassan avrebbe raccontato alla figlia più piccola, una bimbetta di nome Amal, di quel suo amico d’infanzia. “Era come un fratello” le avrebbe detto, chiudendo un libro che gli aveva dato Ari nell’autunno della loro fanciullezza” (e “Non ho mai avuto un amico migliore” dichiarerà Ari ormai molto anziano). È una storia nella quale si insiste sulle ingiustizie subite dal popolo palestinese, ma dai personaggi di Moshe e di David o dal soldato israeliano per cui Amal dichiara la propria tristezza emerge chiaramente che le vittime della Storia sono da entrambe le parti. E nell’immagine finale di un palestinese, un israeliano e un’americana che vanno a vivere insieme c’è forse la premessa (e la promessa) di un futuro diverso.

Recensione di Laura Vetralla
OGNI MATTINA A JENIN Susan Abulhawa

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