Le vicende di dodici personaggi, tutti nativi americani e residenti a Oakland, ruotano intorno all’organizzazione di un powwow: un ingenuo sbandato tossicodipendente, un giovane documentarista fresco di borsa di studio, un uomo consumato dalla depressione che ha bruciato la sua laurea in letteratura e ora vive su internet, un ragazzino che intende imparare le danze tradizionali nonostante l’opposizione della nonna, una donna cresciuta durante l’occupazione di Alcatraz e la sorella che non riesce a superare un grave lutto, un veterano del Vietnam, sono alcuni dei protagonisti di questa emblematica storia di coraggio e rivendicazione, dalla quale traspare rabbia, voglia di rivalsa ma anche lucida analisi.
Il libro si apre con la descrizione dell’immagine del monoscopio con il quale la tv americana fino agli ottanta interrompeva le trasmissioni: un indiano, con il classico copricapo di piume, inquadrato da un mirino; in questa immagine è riassunta tutta la difficile e drammatica storia del percorso di integrazione dei nativi sia che siano rimasti nelle riserve, sia che si siano adattati al tessuto urbano e sociale delle grandi città.
La storia che racconta Orange, qui al suo esordio letterario, è una storia di sangue e distruzione ma è lontana dallo stereotipo che vuole la narrativa ambientata nelle riserve sinonimo di storia triste destinata a lettori bianchi che commuovendosi un po’ si illudono di aver espiato la loro colpa verso i nativi, per questo l’autore sceglie di ambientare il suo romanzo in città e di far agire una galleria di personaggi che , integrati o meno, affrontano sfide e difficoltà non diverse da quelle di ogni altro americano contemporaneo e il riferimento all’indiano del monoscopio è un atto di accusa forte e preciso verso una società che li ha sempre considerati trofei da esibire.
Il romanzo di Orange tratta con piglio diretto la questione dell’integrazione dei nativi e del difficile recupero di un’identità che vada oltre le apparenze e gli stereotipi, ma non è l’unico spunto di riflessione offerto da questo stupefacente romanzo che si muove in perfetto equilibrio tra l’inchiesta e la narrativa: i dodici personaggi che si dedicano, per ragioni molto diverse, all’organizzazione del powwow, mostrano i diversi aspetti di una società che ha trasformato la cultura in spettacolo e che costringe le minoranze a trasformare quanto c’è di più sacro in marketing da “visualizzazione”, pur di poterlo preservare e tramandare.
Nonostante uno stile narrativo cui avrebbe giovato una maggior sorveglianza nella gestione dei sentimenti, Non qui non altrove è una lettura coinvolgente, interessante e decisamente attuale: merita una lettura attenta e senza dubbio consigliabile a chi sia interessato a comprendere la complessità del problema delle minoranze e dell’integrazione, non solo in America.
Recensione di Valentina Leoni
Recensione 2
Smarrimento. È questa la sensazione prevalente che lascia la lettura di quest’opera prima di Tommy Orange. Smarrimento di fronte a queste vite di nativi americani intrise di dolore, dipendenze e frustrazione che cinquecento anni di violenze ed inganni hanno prima relegato in inospitali riserve prive di ogni risorsa e poi “inurbato” nelle metropoli con una parvenza di vita normale ma di fatto emarginate e private della propria storia, della propria cultura.
“È la storia di una nazione e del suo popolo. È la rabbia e la nostalgia per un qui che abbiamo considerato nostro e custodiamo nel cuore, ma che in qualche modo, portandocelo via, altri ci hanno costretto a chiamare altrove.”
“Veho era l’uomo bianco che era venuto e aveva costretto il vecchio mondo a guardare con i suoi occhi. Vedete, le cose andranno così: prima ci darete le vostre terre e poi la vostra attenzione, fino a dimenticare come si fa. Finché i vostri occhi si prosciugheranno e non potrete più guardarvi indietro e davanti non ci sarà più nulla, e l’unica cosa in vista con un minimo di senso avrà la forma della siringa, della bottiglia o della pipa”.
Il ” powwow” è un evento a cadenza annuale che si tiene ad Oakland, California ed ha l’intento di riunire in un giorno di festa, canti, danze ciò che resta della cultura indiana richiamando nella città californiana discendenti dei nativi americani da ogni parte del paese.
Nel powwow confluiscono le precarie esistenze degli undici protagonisti del racconto e le speranze e i progetti di ognuno di essi. A ciascun personaggio Orange dedica un capitolo, con una struttura a racconti apparentemente indipendenti che ricorda da vicino quella usata da Richard Powers in “il sussurro del mondo” per poi amalgamarsi in un racconto corale a tinte fosche caratterizzata da una scrittura metropolitana, senza orpelli e tagliente come la lama di un tomahawk.
Lo scrittore di origini cheyenne ci regala un’opera di denuncia sociale di grande impatto, priva di inutili sentimentalismi ma ricca di crudo realismo ed esprime, in letteratura e per i nativi americani, ciò che Ken Loach rappresenta nel cinema per la working class.
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