LA VALIGIA SOTTO IL LETTO Vito Piazza

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LA VALIGIA SOTTO IL LETTO, di Vito Piazza

(Una piccola e doverosa premessa: ho rotto il “piffero” a tutti, con ‘sta storia dei soldi, lo so. D’altro canto scrivo quello che mi va, per diletto. Ah, dimenticavo: la recensione è lunghissima!!!)

Sono più che maturi i tempi per bloccare quest’ondata di rampolli e figli d’arte che affollano la scena artistica, nel cinema, nella pittura, nel teatro, nella letteratura e in tante altre forme espressive. Vanno fermati!

Le periferie (come d’altro canto le campagne) sono ambienti stracolmi di persone dove sicuramente nascono tanti talenti che non troveranno mai espressione, a causa dell’emarginazione e della povertà. Tutto questo a favore di chi nasce in ambienti più favorevoli. Questa è un’ingiustizia secolare. E’ un limite alle tante personalità che rimangono inespresse in contesti ghettizzati, in alcuni casi senza nemmeno poter immaginare il proprio talento. Una millenaria inconsapevolezza dell’ingiustizia e dello scempio.

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Piazza con tanti anni d’anticipo (chi vede prima ha sempre punte di genialità) ha squarciato su universi poveri, ma non miseri. Il taglio popolare che ci restituisce la narrazione dell’autore, in questa raccolta di racconti, lascia immaginare quanto si possa esprimere, se messi in condizioni di farlo, quando si ha dentro di sé un’esperienza ed un paesaggio interiore così variegato e vivo come le periferie delle nostre città. Le storie le fanno gli esseri umani. Oggi gli esseri umani vivono prevalentemente in questi agglomerati urbani, dentro a palazzi pieni di vite e di possibili racconti, di possibili immagini, di possibile musica. Sarebbe tutto possibile, si. Si dovrebbe fare in modo che questo racconto possibile, non rimanga impossibile. Si dovrebbe uscire dagli annoianti centri storici per entrare nei veri cuori pulsanti delle città, dove non ci sono monumenti, palazzi maestosi, fontane zampillanti, mura di cinta, porte monumentali, cattedrali e gallerie di negozi, ma solo (solo?) vite, tante vite da raccontare. Dentro questi enormi serbatoi di creatività non devono appassire i talenti, sepolti da miserie nere e cieche. Il talento arriva dall’alto, non va disperso. I soldi, la ricchezza e l’agio sociale, sono questioni pedestri, in confronto.

Vito Piazza scrive degli ultimi.

Quando la letteratura, il teatro, il cinema, la musica e molte altre forme espressive sono appannaggio completo di una borghesia annoiata, opulenta, travestita e nascosta, lui scrive delle periferie e, soprattutto, delle anime dimenticate che le abitano.

Per gli ultimi non rimane nulla, come racconta la storia, da millenni. Vengono dimenticati, mai raccontati. La storia (e l’arte) la scrivono (e la praticano) altri.

L’arte si fa nei salotti, nei castelli, agli ultimi piani nei centri storici, nelle misteriose ZTL (ma chi ci abita, lì?), non certo nelle periferie o nelle più recondite provincie. La povertà non prevede che l’anima debba essere solleticata, quando prude lo stomaco (magari dalla fame, se non dalla rabbia). Di solo pane, di solo pane, è questa la verità.

Eppure Vito Piazza scrive di questi ultimi, di questa gente dimenticata o, peggio, mal giudicata, partendo da un luogo che ha perso progressivamente le sue multiple identità per diventare un “luogo comune”, masticato (e rimasticato) sino alla nausea da una certa classe giornalistica, rinfoltita di ignoranti asserviti al potere che, come si sa, cambia di vestito e non di maniera. Pennivendoli, questi, da quattro soldi (bucatissimi!) che hanno scritto in maniera urlata quello che, nei chiusi centri cittadini la borghesia in poltrona, tronfia e gonfia di noia voleva leggere. Tutti pietosi, chi scrive e chi legge, non c’è che dire! Ma vincenti, in un mondo dove il denaro non è più un mezzo ma il valore supremo di giudizio anche (soprattutto) morale. Vince ‘sta gente, è inutile cercare giustizia. Vince il denaro.

Questo luogo ridotto a stereotipo, dove il pregiudizio ammanta ogni anelito di riscossa è Quarto Oggiaro. Ancora oggi, in maniera indecente, nell’immaginario collettivo questo quartiere conserva le stigmate di un marchio d’infamia (come dice lo scrittore Gianni Biondillo, suo contemporaneo “cantore”) che pare essere indelebile. Il discorso si può allargare a tutte le periferie d’Italia (o del mondo): Tor bella monaca, Fidene, Lo Zen, Via Artom, Secondigliano, San Pier D’arena, il Pilastro (citandone alcune in Italia). Tutti “non luoghi”, biecamente riscritti come “luoghi maledetti”, ad uso e consumo di pigre e chiuse menti, come fossero comode coperte sotto le quali nascondere qualsiasi curiosità. Spegnere la necessità di sapere, lasciare che la paura spalmi la sua ombra nera ammantando ogni anelito di conoscenza, in favore dei comodi, già confezionati, rassicuranti e lordi pregiudizi che tanto fanno comodo a chi deve ammaestrare il prossimo, sfruttandone la fame ed il disagio.

Fa onore a questo intellettuale del nostro tempo il fatto di avere scritto questi racconti, vivendo da dentro la realtà che raccontava (pur con qualche licenza). Lui ha fatto il dirigente scolastico in una scuola elementare di Quarto Oggiaro, entrando in contatto, se non addirittura in osmosi, con quel territorio così problematico eppure così ricco di umanità, così variegato, così contaminato e libero. Una moderna babele dove l’integrazione, la capacità di entrare in contatto con chi è differente da noi, la volontà e il probo decoro di chi non ha denaro, tracciavano una costituzione mai scritta per una civiltà sommersa, cancellata dal plastico luccicore del centro cittadino.

Il libro è una raccolta di racconti proprio godibili: piccole finestre che si aprono su un mondo inesplorato. Squarci popolari. Tanti personaggi che si avvicendano tracciati con delicatezza, con garbo, con intuizione. Una danza corale di vite nascoste.

Unico neo della bella narrazione di Vito Piazza è (forse)il troppo forte meridionalismo che caratterizza la sua visione delle periferie. In realtà, pur essendo le famiglie che popolavano questi rioni periferici delle grandi città del centro nord per la maggior parte di provenienza meridionale, la condizione sociale era babelica e trascendeva la latitudine. C’era gente che arrivava non solo dal meridione d’Italia, ma dalle campagne in generale e da zone povere dello stesso settentrione. La verità è che il tessuto sociale era eterogeneo, denso di culture e di suoni, ricco di scambi. Una sorta di fermento culturale che avrebbe portato al formarsi della cultura popolare Italiana, che altro non è che la sintesi di tante identità che si mischiano e rinascono più ricche di prima. Inoltre va detto che il concetto di latitudine è diventato noioso e ovviamente anacronistico (brutta parola, ma non se ne trovano altre).

Un ottimo esercizio per liberarsi di vecchi schemi è quello di ragionare facendo distinzioni legate alla longitudine, anziché alla latitudine. Aiuta molto, aprendo la visione di ciò che siamo oltre allo stantio binario che porta dal sud al nord. Si pensi per una volta alla differenza che c’è fra un Genovese ed un Triestino o, magari, alle differenze che ci sono fra un Barese ed un Palermitano. E’ un buon esercizio.

Bell’affresco di un’Italia d’altri tempi. Bello, davvero.

 

Recensione di Mauro Mauri-Maurone Caratori Tontini

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