IO, Tituba strega nera Salem di Maryse Condè

IO, Tituba strega nera di Salem, di Maryse Condè (Giunti)

Premio Nobel alternativo per la letteratura 2018

Nasce da una schiava stuprata su una nave negriera, Tituba: il suo destino sembra segnata ma da piccolissima sfugge ai padroni e si rifugia in una capanna dove grazie agli insegnamenti della saggia Man Yaba impara il potere delle erbe e degli spiriti. Ma presto rimane sola ed il richiamo di un uomo la riporta nelle piantagioni e successivamente in America, dove approda con la famiglia del pastore Parris al villaggio di Salem (oggi il villaggio si chiama Danvers mentre la fama funesta dei processi alle streghe appartiene alla città di Salem). Nella povertà più assoluta, i suoi tentativi di fare del bene vengono abilmente manipolati ed iniziano così le accuse di stregoneria, i processi che coinvolgono molte donne e qualche uomo, seguono lunghi anni di prigionia ed un ritorno fortunoso alle Barbados, suo luogo di nascita.

Si tratta di un romanzo che affronta con disarmante semplicità la piaga della schiavitù ed il ruolo delle donne, perché gli uomini se la cavano sempre, in qualche modo, mentre sono le donne che portano su di sé il peso del mondo, della maternità, in questo caso negata volontariamente per non mettere al mondo un altro schiavo senza futuro e successivamente accolta con amore e stupore. “Mia madre pianse perché non ero un bambino. Le sembrava che la sorte delle donne fosse ancora più dolorosa di quella degli uomini” (cit.) Ma Tituba è una donna forte, decisa, la cui storia è utile a descrivere la tremenda realtà della schiavitù e dei processi alle streghe, senza fare sconti né abbellimenti narrativi: si tratta di un romanzo storico basato su fonti documentali, che in alcuni casi vengono riportate anche se i dettagli della vita della protagonista sono pura invenzione ma non per questo meno realistici e necessari a raccontare due vicende strazianti che hanno afflitto ed in parte continuano ad affliggere la nostra società. Se Tituba è l’epitome della strega John Indian lo è della schiavitù.

“Cos’è mai una strega? Sentivo che nella sua bocca la parola aveva un accenno di obbrobrio. Come mai? Che significava? La facoltà di comunicare con gli invisibili, di conservare un legame costante con gli scomparsi, di curare, di guarire, non è forse una grazia superiore fatta per ispirare rispetto, ammirazione e gratitudine? Di conseguenza a strega, se così si vuol chiamare colei che possiede una simile grazia, non dovrebbe essere vezzeggiata e riverita invece che temuta?” (cit.)

“John Indian mi strinse le dita fino quasi a stritolarle. Riuscii ad articolare: “Grazie, padrona”. (…) John Indian chiuse la porta con un lucchetto di legno e mi prese tra le braccia, mormorando: “Il dovere dello schiavo è di sopravvivere, mi capisci? Sopravvivere” (…) Quel che mi lasciava più stupefatta e mi disgustava non erano le cose che dicevano ma il loro modo di dirle. Era come se io non fossi là, in piedi, sulla soglia della stanza. Parlavano di me ed allo stesso tempo mi ignoravano. Mi avevano cancellata dalla carta dell’umanità. Ero un non-essere. Un’invisibile. Più invisibile degli invisibili perché loro, almeno, hanno un potere di cui tutti hanno timore. Tituba invece non aveva più realtà di quanta gliene accordassero quelle donne”. (cit.)

Evidenzio infine un interessante e chiaro richiamo al romanzo La lettera scarlatta di Hawthorne, la cui protagonista è un’altra donna forte e determinata.

Recensione di Giulia Quinti

IO, Tituba strega nera di Salem Di Maryse Condè

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