IL CORPO IN CUI SONO NATA Guadalupe Nettel 

IL CORPO IN CUI SONO NATA, di Guadalupe Nettel  (La Nuova Frontiera – febbraio 2022)

 

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Cicatrici che disegnano lievi bagliori o profondi crateri sul nostro corpo. Il segno del fiume in piena che ci ha attraversati rimane? Sa rievocare il senso dei momenti che abbiamo vissuto? Chissà. Ci piace crederlo e cercarlo all’infinito dietro alle parole. Dentro. In quel nostro io che così poco sappiamo leggere.

«Yes, yes / that’s what / I wanted, / I always wanted, / I always wanted, / to return / to the body / where I was born.» (Allen Ginsberg, Song) L’epigrafe deli libro è la strofa finale di un testo poetico o meglio di una canzone di Allen Ginsberg. Eccola tradotta in italiano da Fernanda Pivano:

«Sì, sì, / è questo che / volevo, / ho sempre voluto, / ho sempre voluto, / ritornare / al corpo /

in cui sono nato.» (Traduzione di Fernanda Pivano)

 

 

Soffermandoci su queste parole siamo colpiti dalla ripetizione di Yes, wanted, always, mentre il corpo rimane sovrano nella sua unica accezione. Basta per intuire la fondamentale sua presenza in questi pochi versi: il santuario della nostra identità. Che sia inteso come il corpo della madre che ci ha generati, o come il corpo nostro con il quale ci siamo offerti a questo mondo, il corpo è la nostra dimora terrena. Un significato mistico che va oltre la fisicità evocata da questa parola. Soltanto abitandolo riusciamo a percepire l’essenza della nostra realtà. Del nostro essere. Del nostro io.

Ed è proprio il corpo il centro della ricerca della nostra protagonista / narratrice / autrice, che lo avverte nemico nel momento che presenta una difformità: «Sono nata con un neo bianco, che altri chiamano voglia, sulla cornea dell’occhio destro. Sarebbe stata una cosa del tutto irrilevante se la macchia in questione non si fosse trovata nel bel mezzo dell’iride, cioè proprio sulla pupilla, da dove la luce penetra fino al fondo del cervello.» (p 9) Guadalupe Nettel, autrice messicana di nascita, cosmopolita di formazione, in “Il corpo in cui sono nata”, racconta la sua storia uscendo dalla sua biografia e consegnando la narrazione a un romanzo. Il grave difetto all’occhio l’ha costretta, quando frequentava le elementari, a portare un grosso cerotto, motivo di scherno e vergogna. Se oggi siamo molto attenti in casi come questi e si usa il termine “differenze”, negli anni Settanta si parlava di anomalie o difetti. “Io ero una outsider”, dice sorridendo Guadalupe Nettel.

 

 

Questo l’ha spinta altrove, a cercare conforto nella lettura e nella scrittura: «l’origine di questo racconto risiede nella necessità di capire alcuni fatti e alcune dinamiche che hanno dato forma all’amalgama complesso, al mosaico di immagini, di ricordi e di emozioni che respira con me, interagisce con gli altri e si rifugia nella penna come altri si rifugiano nell’alcol e nel gioco.» (p 14) Avvertiva il corpo come qualcosa di estraneo, in trasformazione, come nella “Metamorfosi” di Kafka, tanto era il senso di inadeguatezza, l’incapacità di amare quel corpo-corazza, di ricongiungersi alla propria fisicità. Alla base del libro, come materia prima, c’è, sì, l’autobiografia ma più sentita da parte dell’autrice è l’urgenza di capire chi è, come mettere il suo io in un corpo poco accogliente: «Non parlerò troppo di mio fratello, perché non è mia intenzione raccontare o interpretare la sua storia, così come non m’interessa raccontare o interpretare la storia di nessuno, eccetto la mia.» (p 14)

 

 

 

Non è facile crescere così, in Messico negli anni Settanta, in una scuola Montessori, con genitori ex sessantottini, la loro coppia aperta, gli amici, figli di esuli politici e una nonna e società bigotte.  Poi ci sono le vicissitudini della vita che rendono la crescita ancora più complicata. “Il corpo in cui sono nata” è scritto in forma di lettera, una lunghissima lettera indirizzata a una psicoterapeuta. «Non so come la pensi lei, dottoressa Sazlavski, ma per me il presunto incanto che molta gente attribuisce all’infanzia è uno scherzo giocato dalla memoria.» (p 122) In questo modo s’indaga il senso di appartenenza ai propri ricordi, a quello che rimane di un vissuto ormai impossibile da rievocare nella sua oggettiva realtà. La verità non ha senso ricercarla qui. Ognuno serba nel suo cuore, la sua verità che è diversa, unica e irripetibile. Della nebulosa epoca felice che di solito viene associata ai nostri primi anni di vita, Nettel non sa che farsene, ricordando molto bene come fosse difficile vivere da piccoli, subendo costrizioni e imposizioni da parte degli adulti, che ti dicono loro dove stare, con chi stare, quando stare.

Ricercare la propria identità richiede anche un confronto con l’identità della propria nazione: «io non riesco ancora a capire perché la maggior parte dei messicani tifi per l’America e per il suo proprietario multimiliardario e non per l’Union de Curtidores, che ci rappresenta davvero. Immagino sia per ragioni simili a quelle delle classi basse che, a ogni elezione, votano per la destra cattolica.» (p 61)

 

 

Così, attraverso l’amica Ximena, fragile e solitaria creatura, ci affacciamo sulle vite tragiche di famiglie dissidenti in percolo nel proprio paese: «Sapevo che era cilena e che da quando era arrivata in Messico abitava in quel palazzo con la madre e la sorella. Il padre, invece, era stato crivellato di pallottole dagli uomini di Pinochet, prima che potesse lasciare Santiago.» (p 67)

E ancora, in maniera scanzonata fa riferimento al presidente messicano Carlos Solinas de Gortari (1988-94) e al suo controverso programma di solidarietà che invece di migliorare la vita dei cittadini non fece altro che aumentare le disuguaglianze sociali: «allora “solidarietà” era una parola quasi sconosciuta, che poco dopo avrebbe screditato del tutto un presidente.» (p 123)

 

 

Nel lungo percorso di una vita purtroppo «il dolore rimane nella nostra coscienza come una bolla d’aria con l’interno intatto, in attesa di essere evocato o, nel miglior dei casi, tirato fuori.» (p 124) e invece di riappropriarci del proprio corpo succede l’effetto opposto: «è strano, ma da quando ho cominciato questo libro, ho come l’impressione di scomparire. […] Quando meno me lo aspetto, le parti del mio corpo risvegliano in me una sensazione di estraneità inquietante, come se appartenessero a una persona che non conosco.» (p179)

Che dire? Si nasce in un corpo e si muore in un altro. Il ritorno al corpo dell’origine rimane un desiderio, un sogno, una canzone. Come quella di Allen Ginsberg. «Il corpo in cui siamo nati non è lo stesso in cui lasciamo il mondo. Non mi riferisco soltanto alle cellule che mutano un’infinità di volte, ma ai suoi segni distintivi, ai tatuaggi e alle cicatrici che con la nostra personalità e le nostre convinzioni aggiungiamo via via, per tentativi, meglio che possiamo, senza guida, né indicazioni.» (p 185)

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

IL CORPO IN CUI SONO NATA Guadalupe Nettel

 

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1 Commento

  1. Ho scoperto l’abilità narrativa della Nettel con questo libro e da allora cerco di leggere tutto quello che ha scritto. Intrecci di cellule e mancanze, ombre che spiano e pensieri che galleggiano: mi sono ritrovato in quel corpo e in quella paura di abitarlo (e di abiurarlo). Una lettura che rivela e crea voragini, la via più dolorosa per crescere …

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