IL CANTO DEL PROFETA, di Paul Lynch (66thand2nd – marzo 2024)
Non bisogna mai dare per acquisiti i nostri diritti, basta poco e li si perde in un attimo e un paese occidentale, europeo, democratico come l’Irlanda si trasforma nella propria nemesi come a Sarajevo, in Afghanistan, Siria o Gaza.
Prima puoi, tutelato dalla legge, manifestare per le tue rivendicazioni di lavoratore, poi il governo appena eletto stilla un nuovo regolamento comportamentale e quando esci la mattina per partecipare ad una manifestazione sindacale di insegnanti da te promossa, non torni più a casa la sera. Scompari, si perdono le tue tracce, esattamente come in Brasile o in Argentina sotto un regime militare.
A chi rimane in attesa di notizie spetta l’arduo compito di gestire la famiglia, di rassicurare gli spaventati e increduli figli adolescenti, e di trovare una mediazione con chi gestisce la cosa pubblica, lo stato, che ormai sta precipitando senza paracadute verso il baratro dell’autocrazia. Spariscono oppositori politici, giornalisti, avvocati dei diritti civili, si licenziano tutti quelli che vengono considerati scomodi, il pensiero unico è ormai dominante.
Attenzione, meglio rendersi conto, che certo, si sta narrando secondo il linguaggio della distopia, ma un violento stravolgimento della convivenza civile come quello descritto potrebbe succedere ovunque.
La quinta opera di Paul Lynch è come ‘Grace’ un altro romanzo al femminile; Eilish, ricercatrice scientifica, moglie di Larry, il desaparecidos, diventa subito la protagonista principale della vicenda claustrofobica vissuta dalla propria famiglia e dal paese, preda delle peggiori pulsioni disunanizzanti tipiche delle dittature. La scrittura, sorretta da una traduzione di enorme pregio, altera la percezione del racconto che bilancia l’andamento ipnotico della narrazione del reale, alla concretezza del monito che vuole esprimere. Il male è in apparenza esterno ai personaggi, ci si aspetta che li rimanga, distante, ma in realtà li infetta come un tenace ed inarrestabile virus.
La ragione del titolo verrà chiarita, non senza commozione e rabbia nell’ultimo capitolo, ciò procura la tipica vertigine del disvelamento di un mondo a noi vicino che evitiamo però di voler conoscere.
Difficile interromperla una lettura simile, ma lo lo si deve fare a volte, purtroppo, per proteggersi dal fastidio che provoca l’eccesso di partecipazione emotiva.
Un libro importante che spaventa nella sua lucida descrizione dell’orrore, dell’abisso che circonda l’essere umano; al confronto Stephen King sembra Topolino.
Recensione di Giuseppe di Giacobbe
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