GREMBO PATERNO Chiara Gamberale

GREMBO PATERNO, di Chiara Gamberale (Feltrinelli  – ottobre 2021)

           

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Il cibo non è sufficiente a colmare la fame se il vuoto interiore si rispecchia in quello intorno

Chiara Gamberale pubblica il suo primo libro a diciott’anni. “Un amore sottile” affrontava già le stesse tematiche di “Grembo paterno”: l’anoressia, La fame, l’amore. Viste da un’adolescente. Ora nell’ultimo romanzo l’adolescente è diventata madre. E dal titolo è chiaro che ci sono altri nodi da sviscerare che hanno a che vedere con la figura paterna. A quarantaquattro anni questo libro segna un nuovo esordio per l’autrice. Avvertiva la necessità di dar fuoco a tutto quello che c’era stato prima. «È stato liberatorio», confessa in un’intervista all’amica scrittrice moderatrice Silvia Avallone. «Ho fatto la pace con me stesa dopo questo libro.»

Per entrambe la parola non vive senza visione. E la visione, nel caso specifico di Chiara Gamberale ormai quarantenne, non c’era. Con la nascita della figlia Vita, che oggi ha quattro anni, subentra una crisi creativa. Doveva fare qualcosa. Ma cosa? Lei, dice, sa solo scrivere.  Ma la storia scritta la cestina. Non sente i personaggi. Non se li porta a letto. Non ci mangia insieme. Nel quotidiano non li percepisce proprio. Ecco, però, che improvvisamente le si palesa un titolo: “Il grembo paterno”. Dice di aver sempre saputo che l’avrebbe scritto, quel libro, ma inizialmente pensava alla morte del padre. Invece eccolo definirsi alla nascita di sua figlia. Attenzione, però, non è un libro sulla maternità. Ma sull’essere.

 

 

Come si fa ad essere madre, donna, adolescente, bambina, sceneggiatrice, figlia, sorella, paziente, malata, amante, libera e responsabile, tutto insieme? Senza perdere un pezzettino di niente? Senza aprire il cassetto dei sensi di colpa? Per rispondere a tutti questi interrogativi la protagonista Adele (Chiara si chiamava in “Un amore sottile”) deve fare un viaggio. Deve tornare laggiù, nel grembo paterno e nel Paese d’origine, mai nominato. Sempre a Silvia Avallone confessa di aver pianto almeno tre giorni, prima di decidersi a scrivere il libro. Rischiando di ricadere nell’errore. Di non essere all’altezza del suo personaggio. Di non sostenere lo sguardo di Adele. Ma da un certo in punto in poi, l’autrice dice di aver ricominciato a respirare. L’apnea era finita. Più o meno a metà romanzo. Gli occhi di Adele erano diventati grembo. La difficoltà immergeva la madre autrice nello scontrarsi con le verità scomode. Diventare madre significa affrontare le figlie che siamo state. Indagare da dove ci viene tutta questa fame.

Il viaggio dell’eroina Adele la riporta indietro nel tempo, nel Paese dove è cresciuta, in povertà, appartenendo alla famiglia sopranominata ‘i Senzaniente’. Scoprendo che come tutte le famiglie la sua famiglia nasconde un segreto. «Giorno dopo giorno dopo giorno». Ma ‘i Senzaniente’ rimangono così anche quando si arricchiscono. Incapaci di saziarsi di quello che hanno. Incapaci di essere felici. Tutti insieme a tavola – il mito della famiglia unita e riunita, fotografia delle case tipiche italiane di fine millennio – diventa un incubo. Il pranzo dove si mangia per non parlare. Ancora meglio se la televisione è accesa e ci riempie, lei, di parole. Le parole che stanno dentro tutte le mura domestiche, ma che non sgorgano dai nostri cuori. Creando così il vuoto.

 

 

«Che umidità» sospira Adele quando il disagio la opprime. Tanto da inventarsi altre presenze. Scatenando il cerchio vizioso della cieca razionalità alla quale si risponde con la cieca irrazionalità. Il viaggio di Adele si compie quando il suo ‘Io’ s’imbatte nella nemica e diventa lei stessa la nemica. La traditrice. La spacca famiglie. L’amante del padre. Dove ‘il padre’ è il ‘padre famiglia’, la figura patriarcale che si erge sopra ogni nucleo familiare, scoperchiando i tetti delle case e infilandosi quando oggi quando domani nella casa dell’amante.  «Papà, papà, papà.  / L’amore primitivo, inevitabile, ladro e santo della mia vita in quella telefonata finiva, e due voci continuavano a infilarsi fra le nostre per reclamare la sua attenzione. / Papà, papà.  / Una delle due voci era femmina.» (p 11) Frase pressoché identica riportata alla fine del libro. (p 217) Enigmatica, non risolta, se non altro carica del complesso e intricato mondo degli affetti familiari e extramatrimoniali.

Diventare colei che tradisce, significa essere in quell’altra casa. Cambiare punto di vista.  Allora il nostro cuore si apre e capisce che si può, che si deve perdonare. Il dolore della vita ci aiuta a capire che in nessun caso dobbiamo soccombere, affondare. Bisogna sempre andare avanti. Comprendere. Contenere. Tutto e tutti. Attraversare. Essere vivi. Direi che “Il grembo paterno” è un libro sul perdono. Sull’essere vivi.

E poi la Televisione. Dobbiamo imparare a farci spettacolo dentro, e cioè puntare il riflettore su di noi, per non evadere nello spettacolo fuori, che ci omologa in una sorta di individuo passivo spettatore. Ma nel terzo millennio l’Italia cambia. Non è più lei il catalizzatore dell’attenzione nelle case. Ma la rete. Ancora peggio. La rete è un luogo di solitudine e di isolamento. Ognuno se ne sta solo con il suo tablet, PC o cellulare e non ci si riunisce più sul divano o intorno a un tavolo. Sempre la nostra protagonista Adele, si trova a scoprire la forza dei social e a passare il testimone ad un’influencer. Lo sciò televisivo si fa con l’ausilio di Facebook e Instagram.  Constatando che gli adulti faticano a cambiare pelle, ad uscire dall’adolescenza.

 

 

Una generazione di genitori quelli degli anni Ottanta che non ha mai saputo che cos’è l’adolescenza, dando così vita a dei figli, eterni adolescenti. Figli che sanno fare solo quello. Adele tutto sommato rimane tale anche quando diventa madre. La sua nuova identità non cancella quella precedente. O così almeno a lei non accade quello che in genere accade alle donne, una volta diventate madri. La società non perdona: quando si entra in maternità, tutto il resto scade e alle donne non viene più riconosciuta la possibilità di essere altro. Un ruolo pesante di responsabilità che tutte le donne stentano a portare. Chi fa finta e chi no. Ma dubito che qualcuna lo abbia veramente portato bene rinunciando a tutte le sue altre identità. La somma delle identità fa di me una buona madre. Non la sottrazione. Questo libro parla di questo. E sono i figli che ci insegnano a diventare genitori. Un grande insegnamento quello che ci viene dai figli. Dice Chiara Gamberale: «Adele raffina il padre. Frida raffina Adele».

Per far emergere le tre identità che coesistono in Adele, l’autrice parla tre lingue: quella di Adele figlia, quella di Adele madre, e infine quella di Adele amante. Il linguaggio rispecchia le caratteristiche di ogni sfaccettatura identitaria. Così come le azioni. Prendere voti alti a scuola è il riscatto della figlia, raccontare le favole il piacere materno, scrivere sms l’erotismo.

 

 

Un libro che si snoda intorno ad una storia d’amore. E non si capisce quale sia l’amore più grande. L’amante. Il padre. La figlia. Ma non ha importanza. è la vita che chiama e che chiede di adattarsi a lei. Come possiamo. Ognuno a modo suo. C’è chi cresce e chi no: «- Lo vedi il bambino. In certe persone lo vedi […] Ci sono invece quelle che non lo vedi. […] Sono diventate intelligenti, sensate, hanno le loro opinioni, che sono quelle, fanno le loro scelte, quelle, e per le strade dei giorni si orientano benissimo, camminano dritte, agli altri e a loro stesse amiche, per dirla con Montale. / mentre le altre persone, quelle dove vedi il bambino, procedono col passo ubriaco di chi ha da poco smesso di gattonare, / Fanno confusione.» (p 37) Il mondo, tutto sommato ha bisogno di entrambi e come si dice, il mondo è bello perché è vario.

E leggere aiuta a capirlo questo mondo. «Leggere è bello» dice con forza, in giro per le scuole italiane, Chiara Gamberale. La letteratura aiuta a vivere. A capire. Attraversare un libro, ci obbliga a farci delle domande e farcele insieme ad altri, oltre il tempo, lo spazio e le coordinate del hic et nunc. certo. Ma la lettura è un piacere in primo luogo. Poi viene tutto il resto. La frase ideale del padre che dice al figlio, spengo il telefono e sto con te, (mi isolo dal resto del mondo) è quello che fa con noi la letteratura. Stare con noi. Accudirci. Amarci.

 

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

 

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