CON GLI OCCHI CHIUSI – RICORDI DI UN IMPIEGATO, di Federico Tozzi
Nello yoga, gli occhi chiusi sono un momento alto della pratica. Si possono tenere gli occhi chiusi in posizioni difficili, solo quando si acquisisce la capacità di volgere lo sguardo dentro di sé senza farsi distrarre dal mondo esterno.
In questo libro dove leggiamo due racconti, “Con gli occhi chiusi” e “Ricordi di un impiegato”, veniamo messi davanti alla visione interna del narratore, alla sua visione intima, alla sua esclusione dell’esteriorità, alla sua percezione della realtà. Gli occhi chiusi sono la condizione sine qua non per sfuggire alle vedute meccaniche, e concentrarsi sulle proprie percezioni.
“Con gli occhi chiusi” è stato scritto nelle campagne senesi nel 1913, ma sarà pubblicato anni dopo, nel 1919, poco prima della morte, rifiutato da diverse case editrici. È uno scritto autobiografico. Pietro, il protagonista esprime l’animo inquieto dello stesso scrittore; il padre di Pietro, Domenico, è una trasposizione narrativa del padre di Federico Tozzi, un uomo succube del desiderio di arricchirsi, con cui il figlio aveva un rapporto conflittuale; così il personaggio della madre Anna, psicologicamente fragile, sottomessa al marito e morta giovane, s’ispira alla figura materna e, infine, Ghìsola, il grande amore di Pietro, è la Isola, o Isolina, di cui l’autore s’innamorò da giovane.
Come sottolinea Carlo Cassola: «Il personaggio femminile è la grande riuscita del romanzo. Ghisola è un autentico polo di attrazione sessuale: fa pensare alle grandi figure femminili di Hardy, a Bathsheba e a Tess. Noi viviamo la passione di Pietro per Ghisola perché sentiamo quanto la donna sia desiderabile. Ed è uno strazio assistere alla sua degradazione».
“Con gli occhi chiusi” (1919) e “Ricordi di un impiegato” (1920) sono due opere che collocano Tozzi tra i maestri europei del secolo. Il conflitto di Pietro con suo padre nel primo racconto, e quello di Leopoldo con la famiglia nel secondo, sono esempi dei contrasti che separano i padri dai figli; in verità, in queste storie, si rivelano due mentalità inconciliabili: la generazione del genitore (maschio) rappresenta un mondo attratto dal potere e incapace di sentire; la generazione dei figli è quella dei diversi, che non si lasciano addomesticare dal padre e che però fa di loro dei perdenti.
Sono vite che si srotolano senza dei e senza progetti eterni a cui dedicarsi. Non sanno rendersi utili e sono incapaci di comprendere il commercio e l’economia. Hanno difficoltà nei rapporti umani e sono incapaci di compassione. Sono in balia di se stessi. La loro inettitudine alla vita, a quel modello che viene loro indicato dalla generazione precedente, li spinge ancor più dentro se stessi alla ricerca di altro, ma senza appagare il loro profondo desiderio di liberazione.
I personaggi di Federico Tozzi sono decaduti, si rendono conto che non sono al centro dell’universo, sono condannati alla cecità, non esiste salvezza. Pietro, Ghisola e Leopoldo hanno perso il senso del loro destino che era stato loro imposto, sottolinea Ottavio Cecchi nell’introduzione, ma anche il senso di certezza di occupare un posto nello spazio. Si muovono in un mondo dove non ci sono più certezze e senza certezze, o, meglio, senza gli occhi del mondo sono costretti a stare.
La tecnica narrativa di Federico Tozzi non va nella direzione del lettore, i personaggi non fanno quello che ci aspettiamo che loro facciano. Sono ritratti in azioni inappariscenti. Non c’è un’azione e nemmeno una trama. Il narratore osserva le pulsioni intorno a lui. Come Edgar Alla Poe, Federico Tozzi preferisce osservare e abbandonarsi all’inquietudine della percezione, mettendo in secondo piano la trama e l’intreccio. Con Federico Tozzi non ci immergiamo in verbosità letterarie. Il suo raccontare è privo di commenti discorsivi.
L’azione si dissolve nella percezione, sottolinea Gianni Celati, la sua visione è laterale e periferica. Di solito lo spazio esterno è descritto in funzione dell’azione raccontata, In Tozzi lo spazio si apre come in certa pittura di Bruegel. Anche l’uso dei verbi ci immerge in un tempo indefinito. L’uso dell’imperfetto rende il senso vago della temporalità che si ha da giovani e esprime la fuga “da questo delirio di concretezza” che è il tempo se declinato al presente.
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