BRUTALE È IL RISVEGLIO Pascale Kramer

Brutale è il risveglio

BRUTALE È IL RISVEGLIO, di Pascale Kramer (Tunué)

 

La brutalità non dà tregua all’essere umano. È implacabile. Come suggerisce il titolo del romanzo in francese. Nella versione italiana, sparisce l’aggettivo “implacabile”, rendendo ancor più netto il senso dell’etimo ‘brutale’. Ma di quale risveglio si parla? L’inizio del romanzo non lascia dubbi: si tratta di una giovane mamma alle prese con una neonata che le ha sconvolto la vita. Siamo in una Los Angeles del terzo millennio. Ci muoviamo nella città di una generazione viziata che ancora non ha capito cosa fare della propria esistenza. Passiamo da una casa all’altra, da un interno all’altro; i viaggi in macchina diventano momenti di transizione necessari, che fanno da cuscinetto fra un’emozione e l’altra. Come se il tempo trascorso ‘in viaggio’ fosse un non-tempo. La nostra protagonista, la giovane Alissa, ama questo non-tempo, vi si rifugia appena può, lo fa durare di più, attribuendo, così, alla destinazione, aspettative sbagliate. I luoghi raggiunti, poi, non fanno che ampliare il senso di inadeguatezza che la pervade.

Pascale Kramer, scrittrice svizzera francofona, residente a Parigi e, per qualche mese all’anno a Los Angeles, affronta qui un tema scottante. Ci parla di un disagio poco indagato, poco documentato. Affrontare temi simili, che mettono in discussione il ruolo materno, non è facile in una società, ahimè, ancora patriarcale. Le donne dicono ancor troppo poco cosa sono, se quello che sono è disturbante. “No more masks”, non più maschere, è il grido di una poetessa americana, Muriel Rukeyser, diventato il titolo di un’antologia curata da Florence Hoss e Ellen Bass e pubblicata nel 1973. Per la prima volta, l’universo donna – americano – viene illustrato in tante sfaccettature, dove le voci delle poetesse esplodono in un tripudio di versi nuovi, autentici e stridenti. Scomodi.

Di recente, ho avuto modo di affacciarmi nel mondo delle scrittrici femministe più giovani di me. Il nuovo femminismo si chiama intersezionale e vive nelle voci uniche delle donne che non hanno paura di esprimersi senza usare cliché, indagando le proprie aspirazioni, i propri desideri, le proprie pulsioni, le proprie paure, le proprie delusioni, senza tralasciare niente. Amarezze, fastidi, malesseri, imbarazzi, dolori e rotture aprono spiragli nuovi, mondi diversi da esplorare. Le eroine del terzo millennio abbandonano il mondo ordinario e si avventurano nel mondo straordinario del loro io. Il viaggio interiore incomincia nel momento in cui si sgretola tutto intorno a loro. Eroina, oggi, è sinonimo di verità e di identità. Significa spogliarsi di tutti gli stereotipi che millenarie stratificazioni hanno appiccicato addosso alle donne. Significa emergere. Significa uscire allo scoperto. Non importa se quello che si vede è brutto e fa male.

Ancor oggi, nel 2021, disturba la voce narrante di “Brutale è il risveglio”. Perché? Perché è ancora tabù. Le donne che dicono di no non piacciono. Piacciono ancor meno se il ‘no’ è rivolto al ruolo della madre, sottolinea Pascale Kramer: «[…] si era sentita all’improvviso infinitamente colpevole e smarrita davanti a quella straziante fragilità che lei non sapeva né odiare né amare, ma solo piangere e temere chiedendo pietà e perdono.» (p. 93). Una donna, sposata, che diventa madre ha il dovere di sentirsi felice: è quello che ci si aspetta da lei. Ma non sempre è così: «Alissa non riusciva a capacitarsi dell’ingiustizia che le era stata fatta nell’indifferenza generale di tutti coloro che le avevano predetto la felicità» (p. 134). E le sue emozioni non rispecchiano gli standard socio-culturali vigenti: «Alissa asciugò rabbiosamente, con il dorso della mano, con l’incavo del gomito, le lacrime dentro le quali tutto quello scenario si annebbiava in iridescenze dorate. Come poteva essere così scema e abbandonata?» (p. 37)

Man mano che incominciamo a sentire, noi lettori, il disagio della protagonista, che si manifesta anche con il cibo consumato in maniera compulsiva, iniziamo a sentire il peso di un corpo che è stato dato in pasto a ideali non condivisi: «Aveva bisogno di zuccheri per riuscire a trovare la pazienza. […] si mise tra le labbra il beccuccio della bomboletta di panna e se ne spruzzò dentro una quantità tale da gonfiarle le guance.» (pp.108-109)

Alissa, quel corpo lo avverte tradito, obbligato a trascinarsi per accudire un altro corpicino in tutto e per tutto dipendente da lei. Una maternità che scopre non volere. Una figlia che scopre non amare: «La fatica di dover sopportare le sue urla le lasciava una sensazione di indolenzimento totale che faceva eco a un’insofferenza più antica e viscerale. Non ti amo, disse» (p.92)

Ma il risveglio di Alissa non è il solo ad essere brutale. L’altro risveglio lo scopriamo più avanti: nel corpo mutilato di Jim. La guerra lo ha reso così. Il vuoto delle sue giornate aumenta la ferocia di un quotidiano tedioso e difficile da adempiere. Nella California contemporanea, poco si sa dei conflitti in cui l’America è coinvolta. Si svolgono altrove. Per chi sopravvive e torna, il mondo delle giovani generazioni si rivela per quello che è: un eden finto, fatto di cartone, dove chi è invalido fa fatica a spostarsi fra ventilatori, piscine e macchine lussuose. L’Irak come la maternità sono vissuti che distanziano dal resto del mondo. Creano uno scarto. E non c’è più ritorno. Da un lato, fare un figlio ti cambia la vita per sempre, dall’altro, aver combattuto in guerra ti rende mutilato. Sono bagagli che, in entrambi i casi, modificano il corpo. Le amputazioni e i tagli alterano non solo l’aspetto esteriore ma anche quello interiore, quello della nostra coscienza e del nostro io più intimo..

Un romanzo breve che si legge tutto d’un fiato dove il linguaggio è irriverente e graffiante, accattivante e provocante. Una prosa che ben si adatta al bisogno stringente di dire verità scomode, di mettere a nudo l’anima. Noi italiani, ringraziamo la traduttrice, Luciana Cisbani che, con eleganza e disinvoltura, ha trovato le giuste corrispondenze linguistiche. Le parole non solo traducono, ma restituiscono fluidità al testo e si sollevano leggere nell’intreccio. Quasi come una danza. La danza dei suoni discordanti e dell’anima ferita.

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