WINESBURG OHIO Sherwood Anderson

WINESBURG, OHIO, di Sherwood Anderson (Einaudi)

 

 

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Recensione 1

 

Ho letto per la prima volta questi racconti esattamente quindici anni fa, grazie a un mio fedele compagno di viaggi, Vinicio Capossela. Il suo album “Da solo”, pubblicato nel 2008, conteneva un brano intitolato “La faccia della terra”. Una ballata, un lungo racconto dalle tinte cupe in cui la voce si accompagna al banjo, alle trombe mariachi suonate dai membri dei Calexico.

Protagonisti della ballata sono i personaggi di questa raccolta di racconti, che un paio di giorni fa ho deciso di rileggere.

Una galleria di personaggi, identificati oltre che dal nome di battesimo, dalla professione o dal ruolo svolto all’interno della comunità della piccola città di Winesburg, Ohio. Il telegrafista, la maestra, il droghiere, il reverendo. Sono loro, i protagonisti dei racconti, di questa “Spoon River dei vivi”, pubblicata per la prima volta nel 1919.

A far da collante, la figura dell’aspirante scrittore George Willard, che compare in tutti i racconti. Una sorta di testimone oculare (in alcuni casi, solo di un racconto orale) del momento in cui le esistenze degli altri personaggi, improvvisamente virano, prendendo una piega che ne condizionerà per sempre il resto della vita.

Per alcuni sarà la conseguenza di una scelta, la realizzazione di un sogno o il mantenimento di una promessa. Per altri sarà il compimento di un destino, di un disegno superiore. C’è Dio con la sua gigantesca ombra, nascosto fra queste pagine: c’è il timore del castigo, il baratro che si spalanca sotto i piedi di chi cade in tentazione e si accinge a commettere un peccato.

Sarà questo bagaglio di esperienze acquisite, con tutta probabilità, l’elemento fondativo della vita di scrittore di George.

Finita la rassegna, quando abbiamo conosciuto uno dopo l’altro i personaggi e uno dopo l’altro li abbiamo visti sparire, il sipario si chiude, la tenda rossa si tira. Sul palcoscenico non è rimasto nessuno, la sala piano piano va svuotandosi e tutto svanisce, come per effetto di un trucco, opera di un abile prestigiatore. Non resta che allontanarsi, lasciandosi alle spalle la piccola cittadina di Winesburg e le sue esistenze.

Negli anni, innumerevoli altre volte, mi sono imbattuto in Sherwood Anderson e nell’ereditá dei suoi “racconti dell’Ohio” – come in Italia sono stati a lungo conosciuti, prima che Einaudi li ripubblicasse con il titolo originale di “Winesburg, Ohio” (prefazione di Vinicio Capossela).

“Siamo tutti figli di Sherwood Anderson” ha detto William Faulkner, includendo in quel “tutti”, altri giganti del calibro di Fitzgerald, Hemingway, Dos Passos… Oggi l’Ohio è sede di una scuola di scrittura di straordinario prestigio, fucina di nuovi talenti, che ne hanno fatto uno dei luoghi letterari d’eccellenza della narrativa contemporanea.

Un luogo dell’anima, questo è l’Ohio. Incastonato fra il lago Ohio a Sud e il fiume Erie a Nord, i monti Appalachi a Est e le grandi industrie di acciaio e pneumatici a Ovest. Moltissimi gli scrittori, i cantautori, i registi, che lo hanno raccontato.

Don Robertson vi ha fondato l’immaginaria contea di Paradise Falls, teatro della saga della famiglia di Morris Bird, con tutto il suo universo di storie a cavallo di due secoli, spostandosi verso la Cleveland dell’incendio del 1944 nel suo “Il più grande spettacolo del mondo”; Pete Seeger ha cantato del trasporto di merci a passo di mulo, lungo il lago Erie; Bruce Springsteen delle acciaierie di Youngstown, in cui un operaio che non ha mai fatto altro nella vita si augura di non finire in Paradiso, ma che il diavolo lo porti con sé nelle fornaci dell’Inferno, dove certamente potrebbe rendersi più utile; John Woods vi ha ambientato il suo “Lady Chevy”, feroce ritratto di una piccola realtà di provincia, schiacciata dallo sfruttamento delle multinazionali che estraggono minerali dal terreno, da una parte, e dal culto dell’autodifesa e del possesso di armi da fuoco, dall’altra; Tiffany McDaniel, nel suo Ohio di ordine e caos, ha sprigionato tutta la creatività della sua poetica, divina e al tempo stesso mortale, in un continuo dialogo fra questo e l’altro mondo, realtà e dimensione onirica, un eterno gioco di contrasti, bellezza e violenza; Stephen Markley – già dal titolo del suo monumentale romanzo d’esordio, “Ohio” – lo ha eletto a luogo simbolo del disfacimento di un Paese e del suo sistema di valori.

Sono solo alcuni dei grandi narratori che hanno scelto, esplorato, raccontato l’Ohio, lo hanno elevato a luogo ideale per la rappresentazione delle loro storie, individuando in questo piccolo Stato del Midwest, il teatro della rappresentazione di un’epica moderna. Con ogni probabilità, oggi, un Omero americano ci avrebbe ambientato i suoi poemi.

Piccola curiosità finale: in una scena de “La meglio gioventù”, il personaggio di Matteo/Alessio Boni prende un libro in prestito dalla biblioteca di Villa Celimontana. L’inquadratura indugia quel secondo in più sulla copertina, perché si possa scorgere il titolo del libro: “I racconti dell’Ohio” di Sherwood Anderson.

Sherwood Anderson

“Winesburg, Ohio”

Einaudi.

Recensione di Valerio Scarcia

 

Recensione 2

Ammetto la mia totale ignoranza su questo autore; eppure sono in pieno periodo “Americano”: Thoreau, Melville, Auster, Wallace, King, Le Guin, ma non avevo mai sentito parlare di Sherwood Anderson.

Ho letto una recensione di Valerio Scarcia e sono rimasta colpita.

E poi scopro che Faulkner ha dichiarato che “è stato il padre di tutti i miei libri”.

Sherwood Anderson, classe 1876…

Racconti, tanti, che hanno come protagonisti alcuni dei 1800 abitanti di Winesburg, una cittadina del Midwest, di inizio secolo scorso.

Ogni racconto svela un personaggio, ne racconta le relazioni con gli altri e con la propria terra.

 

 

Bukowski scrive che Anderson gioca con le parole come fossero pietre. Niente di più vero, il testo è profondamente materico, tangibile, nelle sue descrizioni di terra, terreni, campi, coltivazioni, distese infinite di prateria americana, sulle quali si muovono i protagonisti, stanchi, impolverati, alcuni rozzi, altri estremamente delicati e sensibili.

Si percepisce l’avvicinarsi del cambiamento, l’arrivo dell’industrializzazione che inesorabilmente ingloberà il contesto rurale.

Il collante di tutti i racconti è George Willard, giovane cronista locale, che osserva la vita dei suoi compaesani, che faticano ad essere comunità, è palpabile l’incomunicabilità, l’incapacità di ragionare in termini inclusivi.

Attraverso gli occhi di George entriamo e usciamo dalle case, dalle fattorie, dalle attività, dalle vite degli abitanti di Winesburg, vite fatte di routine quasi snervante ma comunque vite sensibilmente umane.

E con un finale che è l’esatto opposto dei Dubliners, dove l’ultimo racconto ha come protagonista la morte e la fine di un’esistenza, Anderson, con il suo ultimo racconto, ci apre alla speranza, alla vita, all’amore, alla ricerca, alla voglia di scoperta verso un futuro incerto sì, ma pieno di aspettative.

“Rimase a lungo così e quando si mosse tornò a guardare dal finestrino, il paese di Winesburg era scomparso e tutta la sua vita in quel luogo era diventata nient’altro che uno sfondo per dipingervi sopra i sogni della sua gioventù”

Buona lettura!

Recensione di Cristina Costa

 

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