QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA Carlo Emilio Gadda  

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA Carlo Emilio Gadda  

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA, di Carlo Emilio Gadda

È un giallo, se vogliamo incasellarlo in un genere. Il “pasticciaccio brutto” è evidentemente un fattaccio.  E il protagonista è il commissario di polizia Ciccio Ingravallo, molisano trapiantato a Roma negli anni del fascismo.

 

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Ma il punto non è questo. Questo libro è prima di tutto un eccezionale affresco di Roma, e di tutti gli uomini e le donne che si muovono sul suo palcoscenico; proprio tutti. Un affresco in alcuni momenti un po’ pasticciato, ma un affresco rimane.

Quello che emerge immediatamente – e che costituisce la caratteristica più nota di questo romanzo – è l’uso sistematico e diffusissimo del dialetto. Su questo però tornerò più avanti, perché nel “pasticciaccio brutto” ci sono altri elementi che mi hanno colpita forse più di questo.

Primo fra tutti, la descrizione dei personaggi: Gadda usa pennellate accurate, accuratissime, per tratteggiarne l’aspetto fisico, le qualità morali e la linea di pensiero, tutto insieme. Per esempio, memorabile e godibilissima la prima descrizione del commissario Ingravallo, che si incontra nelle primissime pagine del libro (quando ancora il dialetto non ha fatto il suo ingresso trionfale):

 

“Di statura media, piuttosto rotondo nella persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi (…) Aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana (…) pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea sui casi degli uomini: e delle donne (…) E poi soleva dire, ma questo un po’ stancamente, “ch’i’ femmene se retroveno addo’ n’i vuò truvà”. E poi pareva pentirsi, come d’aver calunniato ‘e femmene, e voler mutare idea. Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d’aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto di affettività, un certo ‘quanto di erotia’, si mescolava anche ai ‘casi d’interesse’, ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d’amore”

Tratti precisi e taglienti come un machete, che ci raccontano tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere di Ciccio Ingravallo.
E poi intorno c’è Roma: la Roma dei salotti e quella delle strade. La Roma dei Balducci, ricca famiglia conoscente del commissario che vive nel “palazzo dell’oro” al “ducentodicinnove de via Merulana” – “scala A, spiegamese bene, che la B è un artro conto” – insieme a tanti altri “pescicani”. E la Roma della gente comune, colorata, rumorosa:

 

“Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d’una rete protettiva di biciclette. Donne, sporte, e sedani: qualche esercente d’un negozio di là, col grembiule bianco: un ‘uomo di fatica’ e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d’un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano “a Peppì!”, maschietti col cerchio, un attendente saturo d’arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzionari grossi, che in quell’ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l’altro, man mano che la borsona perveniva ad urtarli nel di dietro. Un monello, con serietà tiberina, disse: “sto palazzo, drento c’è più oro che monnezza””

Da qui ha inizio l’indagine di Ingravallo, che deve districarsi tra una portinaia troppo esuberante per essere sufficientemente ossequiosa; un funzionario celibe, goloso, riservato e reticente; la vittima del furto, quasi delusa da “sevizzie” tante volte immaginate ma non subite.

Poi il “pasticciaccio” diventa sempre più brutto, ed entrano in scena anche un piacente ereditiere ambiguo e dalle mani bucate; una sarta-tintora-chiromante lasciva e traffichina; una bellissima senzatetto spaesata e più loquace di quanto avrebbe voluto; un giovane elettricista-tombeur de femme, “bionno” e con l’attitudine “da pointer, a puntar le quaglie e le starne, sul colle”. E poi basta, sennò vi racconto tutto.

C’è di tutto, in questo libro: una miriade di personaggi che lottano per emergere o per sopravvivere, e lo fanno con quell’egoismo e quell’italica furbizia che il nostro popolo ha preso pari pari dalle epoche precedenti al ” testa di morto” e trasmetterà alle epoche successive.

Umanità varia a cui Gadda dà voce utilizzando un miscuglio di vari dialetti italiani, il romano che la fa da padrone ma anche il molisano, il napoletano, il veneto… E poi ci sono lunghe – e talvolta disturbanti, a dir la verità -riflessioni sull’animo umano e sulla società italiana ai tempi del fascismo, che Gadda sceglie di incarnare in un linguaggio forbito e desueto: ecco allora latino e un italiano ricercato, che passano in esame vizi e virtù – soprattutto vizi, a dir la verità – dell’Italia e degli italiani di quegli anni, o forse di qualunque epoca.

 

Leggere questo libro mi ha regalato un quadro vivace, vociante, vivido e allo stesso tempo triste, sconsolante, demoralizzante: il quadro, dipinto a pennellate sanguigne e decise, di un paese in cui tutto cambia perché niente cambi. È una lettura impegnativa, non lo nego; non è facile stare dietro ai continui cambi di lingua e di registro, ma l’importante è secondo me non pretendere di capire proprio tutto e lasciarsi trasportare dal ritmo delle riflessioni e degli eventi che la lingua, qualunque essa sia, ci narra.

Ciò che onestamente ho trovato pesante e fastidioso non è affatto il dialetto, quanto piuttosto le divagazioni in italiano aulico e le costruzioni della frase decisamente oscure, che si fanno sempre più frequenti nel corso del libro e sono spesso troppo lunghe e davvero complicate da seguire e comprendere. Per me, insomma, è stato paradossalmente l’italiano la cosa più difficile da masticare, un italiano arzigogolato che dalla metà del libro in poi diventa in pratica l’unica alternativa al dialetto; dialetto che invece, forse anche grazie alle mie origini “terrone”, non è stato per me difficile comprendere e, anzi, mi ha divertita e restituito con vividezza personaggi e situazioni.

 

 

Oltretutto, se l’uso del dialetto in questo romanzo ha un motivo chiaro, non riesco invece a spiegarmi il perché di quella sorta di “armatura” che appesantisce progressivamente il libro senza un motivo evidente. Oddio, in realtà un motivo c’è: è chiaro che quell’italiano saccente e ridicolo vuole essere una parodia del linguaggio del regime fascista, in contrasto ancora più stridente con l’ambiguità e l’equivocità di ambienti e persone che racconta. Dev’essere per la mia idiosincrasia per tutto ciò che riguarda il ventennio; ma spesso mi è capitato di saltare delle pagine, lo ammetto.

Insomma, leggere “Quer pasticciaccio brutto” è come fare un bagno in acque agitate eppure limpidissime: se si riesce ad andare oltre il tramestio delle onde, il fondale offre bellissimi squarci da osservare. Ma non è obbligatorio né essenziale farlo.

Recensione di Silvia Pentothal Guido

 

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