LINGUA MADRE, di Maddalena Fingerle (Italo Svevo 2021)
Un libro che consiglio? Sì, ma non fatevi ingannare dalla 4ta di copertina! Sbaglia assolutamente il focus illudendomi di trovarmi di fronte a una riflessione ontologica sulla lingua, sul ruolo delle parole in un contesto complesso come quello del bilinguismo, dove l’idioma è la prima forma di identità mentre questo rimane totalmente secondario e periferico come discorso (ma data la struttura scelta non poteva che essere così, anzi avrebbe striduto diversamente): centrale è l’ossessione del protagonista che si esplica nel cercare di pulire le parole, che sono sì una forma di identità ma non in una considerazione generale-geografica bensì come specchio dell’interiorità specifica di Paolo inserito nel contesto di Bolzano, che però è solo teatro d’azione ma non coprotagonista, probabilmente in altro luogo avrebbe espresso diversamente la sua mania perché comunque si è influenzati dall’intorno ma ciò non dà comunque una visione universale sulla situazione linguistica dell’alto Adige, che, appunto, rimane accennata seppure con spunti interessanti per chi ci si approccia per la prima volta all’argomento.
Punti di forza del romanzo sono la struttura compatta, coerente anche se nella sua progressione inevitabile un po’ troppo strutturata per i miei gusti, seppure apprezzi sempre l’utilizzo della ciclicità, lo stile concitato, che ti fa rincorrere la vicenda nell’accavallarsi dei pensieri di Paolo (seppure come sapete solitamente non è fra quelli che prediligo ma qua è perfetto per la narrazione), e, infine, soprattutto, la scelta del punto di vista: l’occhio del protagonista sempre rivolto sulla realtà, dove proietta la sua interiorità e quindi deformando con la sua percezione i fatti, uno sguardo più o meno ampio, che ci lascia più i meno respiro e quindi ci dà più o meno i informazioni in base alle fasi ossessive del ragazzo, che più riesce a tenere pulite le parole più si rapporta con l’esterno con sguardo lucido. Il punto di vista, comunque, pur essendo in prima persona è sempre assolutamente rivolto al di fuori e mai all’interiorità perché il protagonista, come il padre, parla solo finché ha percezione del mondo fuori. Le atmosfere sono, quindi, claustrofobiche, ci sentiamo soffocati dalla realtà che risulta stretta, schiacciati dentro il suo limitato punto di vista.
Sicuramente un’ottima rappresentazione della malattia mentale, che aiuta a farsi un’idea della percezione di chi ne soffre del mondo che lo circonda, il personaggio è un po’ stereotipato ma ho apprezzato la metafora parole pulite e sporche dato che le usiamo proprio per definire e rapportarci con il mondo.
In conclusione un buon libro che però non ho trovato dirompente nei contenuti, con una struttura standard, estremamente, forse troppo, funzionale al progredire della storia, scritto con una penna brillante: un’ottima confezione che può aprire gli occhi sulla malattia mentale, creando una risonanza anche dolorosa e angosciante con il protagonista ma mi è mancata la scintilla che lo avrebbe reso più che un eccellente esercizio di stile, che mi destabilizzasse dal punto di vista intellettivo, ha puntato quasi solo sul cuore e io cerco altro da una lettura.
Attenzione Spoiler, considerazioni sul finale
Il finale può apparire come aperto ma a mio parere è invece più che chiuso: non è rilevante se si uccide, vediamo un Paolo che ha completato il suo estraniamento dalla realtà e vaga nella città, nemmeno l’incontro con il ciclista (che secondo me lo evita mentre cammina senza guardare) riesce a creare un filo, un ponte che lo svegli, quindi continua a rimanere perso e sconnesso da ciò che c’è fuori, immerso nella sua percezione, obnubilato, vive totalmente in sé, nella sua testa, il resto è nebbia. Se la moglie sembrava il contatto con la realtà, lo shock della nascita di un maschio che riporta tutto il trauma del rapporto con il padre, somatizzato nell’asma di cui parla all’inizio perché cmq lui processava dentro di sé i disturbi paterni come se fosse in risonanza in una empatia malata (non si distacca ma si fa assorbire dalla malattia del padre, lui condanna le donne della famiglia per non averlo capito, ma loro semplicemente si tenevano a galla invece da farsi assorbire, perché gestire la malattia mentale vuol dire proteggere l’altro ma anche se stessi dal rischio di entrare troppo un simbiosi e quindi sviluppare patologie complementari), e quindi provoca definitivamente un punto di rottura dove il suo rifiuto della realtà si esacerba mostrato nella negazione del sesso del nascituro, c’è il breakdown psichico che lui inconsciamente aveva sempre cercato di tenere lontano pur nelle sue crisi. Per cui per me il finale è la perfetta chiusura del cerchio, l’acme di tutto quello che era stato costruito, la fuoriuscita dalla realtà: come poi questa termini concretamente non è importante, noi siamo nella sua testa e il reale è definitivamente finito con l’ultimo spiraglio, inutile, l’insulto, che gli viene dato per ricollegarsi al mondo esterno, e quindi ciò che poi accadrà nel nostro mondo Paolo non lo vivrà chiuso come è nella sua testa. Noi veniamo esclusi dalla sua testa alla fine perché anche noi siamo reali quindi smettiamo di esistere e lui smette di raccontarci: Paolo è il punto di vista, i nostri occhi sulla realtà, che quindi vediamo sotto lente deforme, con dettagli che acquistano senso solo man mano, però finita la realtà ci rendiamo conto che il suo racconto erano occhiali per noi per il fuori ma non c’è mai stato un reale focus all’interno (infatti chiusa la realtà, chiuso il libro), lo sguardo era stato sul fuori, sempre più piccolo, sempre più ossessivo su un dettaglio, uno spiraglio che si chiude.
Recensione di Francesca Frecassetti
LINGUA MADRE Maddalena Fingerle
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