IL DIARIO GENIALE DELLA SIGNORINA SHIBATA Emi Yagi

 

IL DIARIO GENIALE DELLA SIGNORINA SHIBATA, di Emi Yagi (Mondadori – aprile 2022)

 

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Il mondo diviso in due. La solitudine di una donna single si innalza e sovrasta il grigiore degli ambienti lavorativi giapponesi prevalentemente maschili.

Non conoscendo il giapponese, non ho la minima idea di cosa significhi Kushin Techo. Rimango sorpresa quando leggo che il titolo originale del libro è ben diverso da quello italiano. Il titolo tradotto sarebbe “Diario di un vuoto”. Ben diverso da “Il diario geniale della signorina Shibata”.

Mi soffermo a pensare cosa mi dice il titolo in una lingua e cosa mi dice nell’altra. Per quanto mi riguarda, il titolo giapponese mi racconta una storia. Quello italiano un’altra. Eppure è lo stesso libro. Come è possibile, mi chiedo? Quale storia racconta l’uno e quale l’altro? E come può una lingua modificare la narrazione? Possono le due narrazioni essere l’involucro di uno stesso contenuto? Il contenuto non si modifica se cambia la lingua? Se scopre nuove parole?

Sono tutte domande che lascio aperte, mentre voglio concentrarmi su due aspetti messi in luce dai due titoli diversi. Nel titolo italiano al lettore viene subito dato il riferimento del punto di vista di chi narra la storia. Una donna non spostata (signorina) giapponese (il cognome è senza dubbio giapponese) che scrive un diario molto particolare, così particolare da essere definito geniale. In cosa consiste la genialità della narratrice è intrigante. E non nego che questo è il motivo per cui ho scelto di leggere questo libro.

 

 

Il titolo giapponese invece parla del contenuto: il vuoto. Argomento complesso da trattare. Il segnale dato al lettore è diverso. Si sposta dal soggetto all’oggetto trattato. Implica una riflessione esistenziale.

Potremmo dire che l’approccio italiano alla lettura ha un ché di divertente, l’approccio giapponese è invece più di tipo filosofico. In realtà è lo stesso libro: abbiamo qui due chiavi di lettura diverse. Seguendo il punto di vista della narratrice. O concentrandosi sull’argomento sviscerato: un vuoto esistenziale.

Il diario in questione è molto ironico, acuto, smart. È una risposta femminista a un mondo maschilista ancora dominante e irriverente nei confronti delle donne. Si tratta di un sotterfugio. Un’enorme bugia. La nostra protagonista, un’impiegata in un’azienda di soli uomini si finge incinta, stufa di accollarsi gli incarichi collaterali al lavoro d’ufficio, come servire il caffè, distribuire i biscotti o la posta, lavare le tazze del caffè, svuotare i sacchetti della nettezza, e mille altre incombenze del genere. «Oggi qualcuno potrebbe sostituirmi? Per riordinare le tazze intendo. […] Sono incinta.» (p 10)

 

 

Emi Yagi con delicatezza fa lo slalom fra verità e finzione, così bene che protagonista e lettore in alcuni momenti non sanno più qual è la bugia, quasi ci credono anche loro. Seguiamo la finzione della maternità passo dopo passo, il quotidiano della signorina Shibata ci diventa familiare così come il bentō (cibo freddo di vario tipo) o il mapo tofu (patto cinese molto piccante a base di tofu, maiale, aglio e peperoncino) e grazie a lei entriamo un po’ nel mondo aziendale giapponese che spoglia le persone della loro vita privata.

«In questo stabilimento non avevo aspettative. […] Qui si producevano anime vuote.» (p 118) Ma poco dopo questo vuoto sembra essere accompagnato da un “incantesimo”, una sorta di “magia”: «le parole chiamano le parole, e qualcosa, nell’aria, suggeriva che un giorno sarebbe nata una storia. Solennemente, modestamente, fedelmente. era un bene che quelle anime fossero vuote: la storia sarebbe nata proprio da lì. Sentivo i versi dell’incantesimo disperdersi nello stabilimento poco illuminato.» (p 119) Come per dire niente è come sembra. Così come il suo corpo che tutti credono ospitare una nuova vita, ospita soltanto il vuoto. Un’immensa solitudine.         «Mi sento sola. […] Non ci ho ancora fatto l’abitudine, al fatto che, in sostanza, siamo tutti soli.» (p 142)

 

 

Riempire il vuoto con una bugia! Ecco la grande e vera magia. Usare le parole tutti i giorni, le parole di un diario e raccontare a se stessi la nostra grande bugia. «Ecco perché ho deciso di conservare una bugia tutta per me.» (p 143) E questa magia diventa un consiglio: «Se riuscirai a tenere quella bugia nel tuo cuore e continuerai a raccontarla, potrà condurti in luoghi che non ti saresti mai aspettata.  Nel frattempo, sia tu che il mondo potreste essere leggermente cambiati.» (p 143) Un consiglio che va oltre le pagine del libro e raggiunge i nostri cuori. E magati dove credevi ci fosse una tigre trovi “colore”: «Il cortile traboccava di colori. Rose, fiordalisi, peonie, mughetti, lisianthus e tanti, tantissimi altri fiori di cui non conoscevo il nome.» (pp 143-144) Tutto questo con la magia della bugia. Con la magia del racconto. Con la magia del “Diario geniale della signorina Shibata”.

Invece con la difficoltà esistenziale di “Un diario di un vuoto”, a fare la finta madre la nostra protagonista scopre il mondo delle vere madri e rimane sconcertata. È un mondo difficile dove tutto gravita sulle spalle delle donne.  Le madri sono da sole a fra fronte ai bisogni dei neonati che piangono sempre e non concedono un minuto di tregua.

 

 

Le bellissime pagine dedicate alla passeggiata sotto le stelle descrivono la realtà dei fatti, la disperazione di una madre alle prese con il pianto della figlia in fasce, ma soprattutto la rabbia.

La rabbia di una madre spossata, incontrata di notte, diventa la rabbia di tutte le madri. «Sentimento appartenuto anche a mia madre, sì, a mia madre, quella che affondava il cucchiaino nella mia coppetta di gelato dicendo che era delizioso.» (p 139)

Uno sguardo sfacciato alla società di oggi e un ritratto della maternità singolare e senza pregiudizi. «Volevano tutte avere figli? Io sì. Volevo il secondo prima dei trentasette anni.» (p 154)

 

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

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