I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH Franz  Werfel

I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH, di Franz  Werfel (Corbaccio)

“Chi non è stato mai odiato a cagione della sua razza non può comprendere”.

Nell’aprile del 1915 cominciò quello che nella storia è ricordato come “ genocidio armeno”. Un milione e mezzo di armeni furono deportati ed eliminati ad opera dell’impero Ottomano per questioni di interesse. Fu quello che Hitler definì come una prova generale del suo progetto contro gli ebrei.

In un clima di terrore ci fu chi a testa alta e contro un grande impero sfidò la sorte per scappare ad un destino a senso unico. Cinquemila persone si barricarono sul Monte Mussa Dagh, il monte di Mosè, e organizzarono una resistenza armata.

Gabriele Bagradian è un giovane armeno trasferitosi a Parigi che rientra nella sua terra d’origine per un breve periodo con la moglie, Giulietta, e il figlio Stefano. Si ritrova a non potere più tornare in Europa, vede ogni giorno che passa i cambiamenti dello stato sociale attorno a sé. Tutto cambia. Anche lui. Ritrova la familiarità con le cose che ha perso, con la sua terra, le tradizioni, la lingua, i luoghi. E anche il figlio subisce questo fascino orientale pronto all’integrazione con la parte di sé che non conosceva, sente il richiamo del suo sangue armeno che lo rende orgoglioso, come il padre e che lentamente lo allontana dalla madre. Gabriele convince gli abitanti dei villaggi armeni, pronti alla deportazione, ad una resistenza armata sulle pendici del monte che durerà quaranta giorni. Saranno giorni di privazioni, angosce, lotte, morti, nascite, decisioni.

Mi ero immaginata questo monte come un posto brullo, impervio, sterile, pieno di rocce e spuntoni. Sono rimasta invece colpita dai suoi dorsi ondulati, dai ruscelli, da una natura rigogliosa e accogliente come “ ultimo sapore di Paradiso”. Le descrizioni sono particolareggiate e armoniche, quasi slegate dal resto della lettura che ho percepito in alcuni tratti lenta e molto asciutta.

La prima parte dedicata alle persecuzioni, scorre lenta, come le colonne che svuotano i villaggi, “un ritmo strascicato di milioni di passi, quale la terra non aveva ancor mai conosciuto”. Marce composte da milioni di piedi, sempre più vacillanti, parti di un solo corpo, di una sola sofferenza e di un unico urlo straziante di dolore. E’ un verme di morte che si muove nella polvere, che ci ricorda ben altri svilimenti umani, “un tappeto ambulante, intessuto di fili sanguinosi del destino, che nessuno può districare”. Il dolore degli armeni passa per Werfel attraverso gli occhi. Sono grandi, neri, vuoti, ingranditi dallo spavento di dolorose visioni millenarie come se già fossero arresi al loro destino. “ Beati i morti che hanno già tutto dietro di sé”.

Poi il ritmo cambia, diventa più concitato, veloce.

Il libro segue diversi livelli. Quello dell’azione militare sul monte, delle vicende politiche nella ricca Istanbul, del destino dei singoli sul monte. I personaggi sono forti. Madri orgogliose dei propri figli in abbracci dolorosi, come Sciuscìk e Haik, o dimentiche dei propri, prefiche mefitiche come figure immonde che vivono nel cimitero, presenze collegate fra due mondi. Stefano, l’eroe dal profumo di rosa, Gabriele, che si riscopre un uomo diverso da quello partito da Parigi, che diventa parte della sua terra. Anche il Mussa Dagh cambia: vive e protegge i suoi abitanti. Sul monte nascono 17 bambini, muoiono 432 persone e se ne salvano 4500 circa.

“L’uomo non sa chi è, prima di essere stato messo alla prova”.

E’ un libro faticoso, forse per la traduzione datata che lo appesantisce, ma la lettura ripaga e soddisfa.

“ Gli eroi omerici lottano intorno alle Portee Scee e ciascuno di loro crede che la vittoria o la sconfitta sia affidata alle sue armi. Ma la battaglia degli eroi non è che un riflesso della battaglia che sopra le loro teste combattono gli dei, per decidere la sorte umana. Gli dei stessi però non sanno che anche la loro lotta non fa che rispecchiare quella che da tempo è decisa nel petto dell’Altissimo, da cui derivano la pace e la guerra”.

Recensione di Luciana Galluccio

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