HORCYNUS ORCA, di Stefano D’Arrigo
Più che leggerlo in silenzio questo libro monumentale, andrebbe declamato a voce alta, con la cadenza tipica del cantastorie che indicando al suo pubblico i riquadri dipinti, procede a dipanare enfaticamente lo sviluppo della storia. La storia con la S maiuscola e anche quella minuscola pervade con prepotenza le 1257 pagine ed è storia nostra, di casa, sullo sfondo di una dittatura ormai allo sfacelo, come il paese che l’ha sostenuta o subita ed ora raccoglie i cocci, per quel che può. 1943 Sud Italia, tra Calabria e Sicilia, in quel tratto di mare che è poi somma di due mari, lo Stretto di Messina.
Qui c’è chi di fretta sale, batte in ritirata, fugge all’avanzata degli Alleati, e c’è chi, come ‘Ndrja il protagonista, insieme ad un manipolo di altri reduci, scende, molto lentamente. seguendo il tragitto inverso, verso casa a Cariddi. Un viaggio a ritroso, quello che fa lui, ma che fa fare anche a noi, con quel continuo ondeggiare fra ricordi di guerra e di pace e realtà quotidiana. I bombardamenti, i cadaveri galleggianti, le macerie ovunque, i resti di armamenti e divise, la fame e desolazione luttuosa dei luoghi attraversati per mesi. In mezzo, sopra, sotto, accanto, dentro e fuori, sempre lui, il mare, vero reale mitico vissuto interiorizzato protagonista di questa narrazione che scavalca come un’onda il normale, per rigettarsi con veemenza nello speciale.
Il mare che entra nel sangue, che è vita ed anche morte, e con esso chi ci sta sopra- uomini e barche, e chi ci sta sotto – pesci divisi fra buoni e cattivi, in un rapporto strettissimo di attrazione e repulsione, di amore-odio, tenerezza e terrore. Le “fere” (delfini) prima e il “ferone”(orca) poi, sono quel nemico ineluttabile ed onnipresente, ma che in fondo si rispetta e si tratta alla pari, si affronta con onore, con un senso di rassegnazione, dignità ed accettazione della sorte. Sin dal prima pagina emerge, come bolla d’aria sulle creste marine, lo stile narrativo ossessivo dell’autore, con quel suo sfiancante ripetere concetti, giocare con le parole, crearne di nuove, e quell’uso imprescindibile del dialetto siciliano. Il dialetto è lingua universale, embrionale per D’Arrigo, che si ostinò a non volere glossari nè introduzioni nella prima edizione del 1975, quella che ho appunto letto.
Le avventure di ‘Ndrja in questo viaggio omerico, quasi moderna odissea, si dilatano nel tempo e nello spazio grazie ai ricordi e visioni non solo sue, ma anche dei numerosi, incredibili personaggi, che via via incontra sulla sua strada. Anziani e donne soprattutto, perché di uomini non se ne vedono più. Figure femminili quasi mitologiche, statuarie, potenti, sensuali o sboccate, disinibite ed affamate di tutto, sirene che incantano, pescatrici di uomini, piene di malìa, scaltre e dominatrici in acqua e a terra, padrone del proprio corpo, autonome e passionali erinni alla Bruno Caruso che intrecciano fili per legare a sè gli uomini, che siano trecce di capelli corvini, agugliate di ricamo o cordame marinaro.
D’Arrigo impiegò più di 20 anni a terminare questa impresa narrante, ci si consumò, forse perdendoci anche la salute, non dormendo né mangiando, in un’ estenuante opera di limatura, alla ricerca della perfezione, e il suo stile, proprio come il mare, ha flussi e reflussi, torna e ritorna, ribadisce, sottolinea, amplifica, riassume, riafferma, ha un ritmo del tutto teatrale, da Opera dei Pupi, con i personaggi come tanti pupi ma senza puparo, avvalendosi di neologismi impossibili, indulgendo in metafore, procedendo per analogie, paragoni, allusioni, parabole.
Momenti di alta poesia, di dolcezza commovente, ma anche di gretta, violenta, bassa realtà. “Horcynus Orca” non è solo il racconto di un viaggio, è il dipinto -come un quadro di Guttuso-di un’intera comunità, dei pescatori di pesce spada, e diventa anche un manuale antropologico di usi e costumi dell’isola, un atlante geografico di luoghi e paesaggi mitici e reali, un compendio dove si mescolano tecniche marinare ed introspezione psicologica, un trattato linguistico ostico che denota cura e adorazione per la parola.
Difficile, arduo è stato da scrivere, lo è da leggere, ma anche da riassumere. Assistiamo pagina dopo pagina alla messinscena di un coro tragico e doloroso, in cui a turno, sul palco, ciascuno recita la sua parte di corifeo e l’unico momento di vera felicità, alla fine, rivela tutta la sua terribile brevità.
Recensione di Anna Caramagno
HORCYNUS ORCA Stefano D’Arrigo
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