DUE LIBRI A CONFRONTO:
LA VERITÀ DEL MALE. Eichmann prima di Gerusalemme, di Bettina Stangneth (Luiss University Press)
LA BANALITÀ DEL MALE Eichmann a Gerusalemme, di Hannah Arendt (Feltrinelli)
LA VERITÀ DEL MALE. Eichmann prima di Gerusalemme, di Bettina Stangneth (Luiss University Press)
Il libro, pubblicato originariamente in Germania nel 2011 e negli Stati Uniti nel 2014, ha avuto un successo enorme.
Uscito in Italia con la bella traduzione di Antonella Salzano grazie al Goethe Institut e al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale Tedesca, “La verità del male” è, dal mio punto di vista, un’opera fondamentale; è infatti il risultato di una ricerca molto complessa ed impegnativa che non potrà che condizionare studi e ricerche che in futuro dovessero essere intraprese o proseguite su questo tema, un’opera in cui la storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth esperta in teorie dell’inganno e psicologia della manipolazione si confronta con Hannah Arendt e la sua celeberrima teoria della “banalità del male”.
Nel 1961 Hannah Arendt era stata inviata dal New Yorker in Israele per seguire le 120 sedute del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, responsabile dell’organizzazione degli spostamenti degli ebrei verso i campi di sterminio. Ne venne fuori un libro che fece molto scalpore e che ancora oggi è uno dei più popolari di Hannah Arendt.
Al processo di Gerusalemme Adolf Eichmann si presentava come un semplice burocrate che non avrebbe fatto che obbedire agli ordini. Arendt ebbe l’impressione – così scriveva nel 1963 in La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme – che “le azioni erano mostruose ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso” e scrisse che certo Eichmann era un noto criminale antisemita ma che in lui non c’era alcun fanatismo perché più preoccupato della sua carriera che di altro. Eichmann, ritiene la Arendt, è incapace di distinguere il bene dal male.
Questa tesi, chiamata “la banalità del male” scatenò un putiferio.
Eichmann appariva dunque ad Arendt come un mediocre funzionario, un “assassino da ufficio”, un burocrate che si sarebbe limitato ad obbedire agli ordini genocidi dei dirigenti nazisti.
Adesso però con Eichmann vor Jerusalem (Eichmann prima di Gerusalemme) basato su solide fonti d’archivio che al tempo del processo non erano disponibili e della maggior parte delle quali Arendt ignorava anche l’esistenza, Bettina Stangneth ribalta totalmente l’ interpretazione di Hannah Arendt.
La filosofa e storica tedesca Stangneth dimostra nel suo libro che – a seguito dell’analisi della documentazione di recente resa disponibile e consultabile – la tesi di Arendt di un Eichmann grigio burocrate dell’omicidio di massa non si può applicare a colui che – lungi dall’essere stato un mero esecutore di ordini – fu in realtà uno dei grandi protagonisti ed artefici della “Soluzione finale”.
La studiosa tedesca ha cercato e consultato l’insieme dei testi scritti e delle interviste rilasciate da Adolf Eichmann tra la fine della seconda guerra mondiale negli anni ’50 ed il suo rapimento ad opera del Mossad nel 1960 in Argentina, in particolare le misteriose “Carte Argentine” in possesso del volontario olandese nelle Waffen-SS, anche lui fuggito in Argentina, Willem Sassen. Da queste carte e dai nastri registrati emerge un Eichmann perfettamente convinto e fiero dei suoi crimini, completamente diverso dall’uomo presente nell’aula del Tribunale a Gerusalemme. Stralci dei testi scritti erano stati parzialmente editi dalla rivista Life e vennero in effetti utilizzati nel processo di Gerusalemme, ma erano solo una piccolissima parte. Quello che viene fuori dall’insieme del materiale (testi scritti ed interviste registrate) è un Eichmann che secondo quanto testimoniato al processo di Norimberga dal suo vice Dieter Wisliceny “Disse che sarebbe saltato nella tomba ridendo, perchè per lui la sensazione di avere cinque milioni di persone sulla coscienza era estremamente gratificante.”
Ne La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme Stangneth dipinge così l’Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS Otto Adolf Eichmann:
“Il nazista redento e l’amante della natura ormai completamente apolitico non arrivarono mai in Argentina. L’idillio non faceva per Eichmann. Per lui la guerra, la sua guerra, non era mai finita. (…) Poteva aver svestito la divisa, ma il nazionalsocialista fanatico era ancora in servizio”.
Nel lavoro di Stangneth non c’è alcuna polemica nei confronti di Arendt ed è molto rispettoso della grande specialista dei totalitarismi. E’ piuttosto una sorta di integrazione, un “dialogo con” (così la definisce l’autrice a p. 19) l’interpretazione proposta da Arendt.
A lei non interessa tanto smentire le tesi di Arendt quanto piuttosto completare il profilo di Eichmann, scoprire cosa si nasconde dietro quella che sempre di più le appare una maschera – quella del grigio burocrate – che Eichmann ha tenuto ad “indossare” in occasione del processo di Gerusalemme
Eppure, questa immagine di Eichmann in Argentina può convivere con quella dell’Eichmann al processo di Gerusalemme. L’una non esclude l’altra. La verità è che il gerarca nazista sembra aver mostrato facce diverse a seconda degli uditori cui si rivolgeva e delle situazioni in cui si trovava, presentando “evidentemente con fini strumentali” aspetti diversi della propria personalità ed esperienza. “Lo Zar degli ebrei” (così veniva chiamato ai tempi delle deportazioni per il terrore che incuteva ed il potere assoluto di vita e di morte di cui godeva), “il perfetto ebraicista” (si diceva che parlasse fluentemente ebraico ed yiddish e che conoscesse a menadito la Torah) era quello che riusciva a convincere i rabbini a spingere gli ebrei sui treni della morte. In realtà, “Nel 1960 in Israele sarebbe emerso che non capiva una parola di ebraico e che non era nemmeno in grado di leggerlo. Evidentemente quelle poche briciole e la capacità di aprire un libro ebraico per il verso giusto gli bastarono per recitare con successo il ruolo di un insider”. Era insomma un eccezionale, pericoloso manipolatore.
Bettina Stangneth è non solo storica e filosofa ma anche – come ho detto prima – particolarmente esperta di teoria dell’inganno e di psicologia della manipolazione, e quando scrive che Eichmann fu molto attento alla sua immagine pubblica fin dall’inizio e cercò sempre di influenzarla credo possiamo avere tutte le ragioni per crederle e possiamo, io credo, pensare che Hannah Arendt fu presa nella trappola.
“Eichmann si reinventava in ogni fase della sua vita, in base al pubblico a cui si rivolgeva e agli obiettivi che perseguiva. Si presentava di volta in volta come subalterno, comandante, colpevole, profugo, richiedente asilo o imputato – Eichmann osservava maniacalmente il proprio impatto e cercava di volgere le circostanze a suo favore.”
Il volume è imponente perché frutto di un enorme lavoro di documentazione e certo potrebbe intimorire per la sua mole. Eppure lo si legge con facilità – anche perché a tratti ha l’andamento di un giallo: Stangneth infatti, come un segugio, segue passo dopo passo i movimenti di Adolf Eichmann prima negli anni della guerra e dopo durante i quindici anni che vanno dalla disfatta della Germania alla cattura in Argentina e poi al processo a Gerusalemme.
Impressionanti tutti i passaggi del libro che mostrano le straordinarie capacità manipolatorie di Eichmann. Particolarmente agghiacciante mi sembra questo che riporto, che mi aiuta anche a dare un senso alla frase che ho letto e sentito più volte in altri libri ed anche in molti film: “è stato capace di convincere i rabbini a spingere con le loro mani gli ebrei sui treni della morte”:
“Persino in Israele, circondato da persone che sapevano con esattezza chi avevano davanti, Eichmann riuscì in ciò che gli era già riuscito così spesso in qualità di funzionario delle SS: suscitò simpatia pur essendo un nemico. Tutti quelli che ebbero a che fare con Eichmann raccontarono poi di essere certi di aver rappresentato un importante punto di riferimento per lui. L’ufficiale che lo aveva interrogato, il direttore del carcere, il medico, lo psicologo, il teologo, fino al vice procuratore generale – tutti lodavano il suo atteggiamento collaborativo, sottolineavano la sua disponibilità a parlare e credevano che Eichmann nutrisse una particolare gratitudine nei loro confronti per le loro conversazioni.”
Recensione di Gabriella Alù
LA BANALITÀ DEL MALE Eichmann a Gerusalemme, di Hannah Arendt (Feltrinelli)
La banalità è un piatto che va servito banalmente tiepido, altrimenti rischia di prendere sapore.
Ma soprattutto è come il pane: non può mai mancare sulla tavola di qualsiasi persona di buona coscienza.
Nel suo celeberrimo reportage Arendt, com’è noto, presenta la questione della malvagità umana da una prospettiva che non lascerà indifferenti milioni di lettori. La Soluzione Finale fu portata avanti da una maggioranza di uomini grigi, ubbidienti, omologati, incapaci di pensare autonomamente, o quantomeno di farlo in relazione alla propria coscienza. Lo stesso Eichmann (gerarca nazista incaricato della gestione di gran parte della logistica dei treni della morte) era uno di costoro, sostiene la Arendt.
E così dicendo sposta filosoficamente la questione sul fatto che ognuno di noi è potenzialmente un Eichmann, un uomo che si conforma e tace di fronte alla volontà di una presunta massa e di alcuni folli capi carismatici che la guidano.
In questo modo è come se sminuisse statisticamente il gradiente della malvagità all’interno della società umana (circoscrivendolo alla personalità di pochissimi pazzi) mentre allarga quello, appunto, della banalità, della gramsciana indifferenza.
Per questo ho esordito scrivendo che il piatto tiepido della banalità arendtiana non può mancare sulle tavole delle persone abituate a farsi un esame di coscienza: perché una questione posta in tal modo non può essere ignorata da chi cerchi di condurre la propria vita secondo un’etica.
Nel 2017 però esce un’opera di un’altra studiosa, Bettina Stangneth, dal titolo “La Verità del Male”, che mette in forte discussione le tesi della Arendt. Si tratta di un’opera estremamente documentata, frutto di mesi di ricerche e di sbobinature di molte ore di interviste e lettura di diari e altri resoconti.
La Stengneth sostiene che lungi dall’essere un uomo grigio e banale, il burocrate Eichmann era una persona scaltra e assolutamente consapevole delle proprie azioni. E che il suo atteggiamento dimesso durante il corso del processo a suo carico non è stata che la scelta difensiva di un uomo ben consapevole delle dinamiche della comunicazione. Anche se ciò non è bastato a evitargli il verdetto di colpevolezza e l’impiccagione.
Arendt dunque aveva preso un abbaglio, e noi con lei. Ci eravamo fatti convincere dalle capacità istrioniche del maligno a credere che il maligno stesso non fosse che una rara eccezione alla regola, mentre invece la malvagità popola le fila dell’umana congerie con più frequenza di quanto si creda.
Chi avrà ragione, Stengneth o Arendt? Forse entrambe.
LA BANALITÀ DEL MALE – Hannah Arendt
Recensione di Marcello Ferrara Corbari
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