VITA Melania G. Mazzucco

VITA, di Melania G. Mazzucco (Einaudi)

 

 

 

            La storia della mia famiglia assomiglia alla storia della famiglia Mazzucco. I miei nonni materni emigrarono in Francia, altri cugini loro in America, Canada, Argentina. La fame ci ha spinti lontano dal nostro paese. Oggi accade l’inverso. E non sempre siamo accoglienti e comprensivi con chi cerca quello che cercavano i nostri nonni. E la nostra memoria?

 

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Vincitore del Premio Strega 2003, “Vita” è un romanzo che entra un po’ in tutte le nostre vite. In tutte le nostre ricerche identitarie. E come tale si frammenta, si sfibra e s’insinua in ogni nostra fessura. Colma vuoti. Paure. Solitudini. Spesso con tanto dolore. Camminando sopra le rovine del tempo, della storia, della miseria.

Melania Mazzucco è una scrittrice italiana, plurilaureata e pluripremiata, esperta di cinema e di teatro, oltre che fine donna di lettere, collaboratrice dell’Enciclopedia Italiana Treccani, per la quale ha curato il settore letteratura e spettacolo di varie opere dell’Istituto. Ha scritto romanzi, racconti, numerose storie per la radio, articoli e recensioni sul teatro.  In questo romanzo s’interroga su come recuperare la memoria. Ma non solo. Ci racconta un secolo intero di storia, attraverso i ricordi scritti o narrati della sua famiglia. Ripercorre la vita di suo nonno Diamante, emigrato negli Stati Uniti a soli dodici anni. E la storia di Vita, la bambina di nove anni che fece la traversata con lui e che gli rubò il cuore sin dai primi giorni trascorsi insieme su quella nave. Ma è anche la sua storia, la storia di Melania Mazzucco. Del suo cognome.

 

 

L’incipit è forte. Sin dalle prime parole travolge il lettore con veemenza. Lo proietta nel niente della narrazione: «questo luogo non è più un luogo, questo paesaggio non è più un paesaggio. […] Tutto è bruciato.» (p 6) Nel niente del narratore – o del lettore – così spiega questa scelta Melania Mazzucco, nella postilla: «il passato era solo un mucchio di macerie.  […] È per questo che “Vita” ignora la cronologia – non cominciai col viaggio del ragazzino nella scialuppa del Republic della White Star Line, e nemmeno col mio viaggio a New York nel 1997, quando il progetto del romanzo si è concretizzato, ma con l’ingresso del capitano Dy Mazzucco a Tufo nel maggio del 1944. Il suo cammino nelle rovine del villaggio è anche il mio: quello dello scrittore che attraversa le macerie del passato della famiglia, della memoria, di sé. Sognando di ricostruire il villaggio con l’unica ricchezza cui riconosce valore: le parole.» (p 462)

 

 

Il capitano Dy è il figlio di Vita, un lontano cugino di Melania Mazzucco, di cui non sapeva niente prima di cominciare le sue indagini sulle sue origini: «Fino a qualche anno fa, non sapevo chi fosse […] adesso so che quest’uomo avrebbe potuto essere mio padre, e che la scena del ritorno a Tufo avrebbe potuto raccontarmela mille volte, mentre grigliavamo le bistecche sul barbecue o tosavamo il prato del giardino in una villetta del New Jersey.» (p 9) Prende coscienza che la sua esistenza poteva avere immagini, colori, odori completamente diversi, definiti e descritti addirittura in un’altra lingua, con altri suoni, altri fonemi, altre grafie.

Invece suo padre le ha raccontato un’altra storia. «Volentieri, perché amava raccontare e sapeva che solo ciò che viene raccontato è vero.» (p 9) Vissuto, memoria, racconto. Questo è il padre.  Recupero, immaginazione, racconto. Questa è la figlia.  Un doppio binario della struttura narrativa per noi lettori. Per orientarci nel complesso reticolo della memoria. E ora forse iniziamo a voler indagare il nostro passato.

 

 

«C’era stato un delitto, e questo delitto era l’oblio. E io ero stata complice.» (p 460) Ma cosa significa esattamente tutto ciò? Bella domanda. Per l’autrice, significa compiere una ricerca per quanto accurata possibile, andando a rovistare nei ricordi di famiglia, negli annali, negli archivi storici, nei registri anagrafici e religiosi, ma anche dentro di sé dove qualcosa di questa memoria deve essere stato inciso per forza. Chissà come e chissà quando. Ma il come e il quando di adesso impongono un attento esame di coscienza. È importante capire che se abbiamo un dovere è quello di agire prepotentemente, colpire ferocemente il nostro preferire un placido dimenticare a un violento ricordare. Significa rimettersi in gioco. Per non essere complice.

 

 

In “Vita” vi sono più livelli narrativi. Ce n’è uno anche metanarrativo.  Fa pensare alle tecniche dell’entrelacement. Come faceva Ariosto, che considerava il racconto una “tela”. Il narratore tesse un filo, poi lo abbandona, ne intreccia un altro, lo perde per strada e ne compone un altro. Ad un certo punto va a cercare i fili e li collega fra loro, ripetendo questo schema infinite volte, fino a produrre un grande arazzo narrativo.  Riannodare fili, riavvolgere nastri, indagare negli archivi della polizia di Brooklyn, nelle liste passeggeri, nei fascicoli delle Railways Companies americane e scrivere un’opera di vita, condivisa da molti italiani dei primi anni del Novecento. Ecco come Melania G. Mazzucco ritrova antenati e discendenti, mescola storia antica e recente. Ci entra dentro e ci scuote come tappeti intrisi di polvere e di troppe dimenticanze. Vita ci riporta alla vita. Alla nostra vita. Ci insegna le nostre origini. Un capolavoro. Un lavoro “capo”, cioè che sta a capo del nostro essere italiani. Americani, Emigrati. Immigrati. Cittadini del mondo. La storia insegna. La memoria custodisce, rivela o nasconde – al bisogno – la verità. Che solo le parole dischiudono.

 

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

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