VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE Louis-Ferdinand Céline

VIAGGIO AL TERMINE DELLA NOTTE, di Louis-Ferdinand Céline (Corbaccio)

          

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Il viaggio oltre noi stessi, oltre il finire del giorno, oltre la stupidità umana. Oh, come s’ingegna l’uomo per fare le guerre, tanto che a volte è il nemico meno dannoso dell’amico. Questo accade purtroppo ancora oggi, nel terzo millennio. Si continua a scendere e l’amore rimane un giardino per pochissimi istanti, riservati a una manciata di eletti. Il ritmo, un ritornello, sempre quello, cantato dall’anima del barbone in mezzo alla gente, spesso ignorato, calpestato, deriso. E la sua anima, nemmeno lui la vede.

Il titolo deriva da una strofa di una canzone cantata dall’ufficiale svizzero Thomas Legler. «La nostra vita è un viaggio / in Inverno e nella Notte / noi cerchiamo il nostro passaggio / in un Cielo senza luce».  Era il 1793, l’ufficiale combatteva per Napoleone, e Louis-Ferdinand Céline la sceglie come esergo al romanzo. Segue una definizione del viaggio molto citata e amata: «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.»

 

 

A tradurre di recente il capolavoro céliniano, è stato il vincitore del Premio Strega nel 2000,

con il romanzo “N”, dove la figura di Napoleone è centrale e funzionale al quesito esistenziale: è meglio modificare il mondo attraverso l’azione eroica, o cercare di dargli un senso attraverso la scrittura? Chissà se tradurre Céline ha dato qualche spunto a Ernesto Ferrero? Intanto il protagonista del “Viaggio” da lui tradotto, non ha niente dell’eroe e nessuna intenzione di assomigliargli.

Si ritrova in guerra senza capire chi è il nemico e perché esiste un nemico. «Io non sapevo.» Forse gli altri, il Colonello, i tedeschi lo sapevano. Ma il combattente Ferdinand Bardamu non riesce a farsene una ragione. Fa la guerra senza condividere un grammo del pensiero che la anima. Rimanendo puro nel suo pensare la guerra una «imbecillità infernale», ci racconta del sodato Kersuzon, ucciso per sbaglio da francesi «che ci avevano scambiati per altri».

 

 

Narratore e protagonista, Ferdinand Bardamu impersona l’autore stesso. Il suo cognome risulta dall’unione delle parole francesi barda (argot per equipaggiamento militare) e mu (mosso, participio passato del verbo “mouvoir”, muovere). La trama vedrà Bardamu piano piano disfarsi dei buoni sentimenti e dell’ottimismo, che appartengono a tutti i giovani secondo un pensare comune tradizionale.

L’opera è a sfondo autobiografico, come tutti i romanzi di Céline. Bardamu, dopo aver combattuto la Prima guerra mondiale, s’imbarca per l’Africa coloniale, dove impara come si muovono i colonizzatori francesi, poi per gli Stati Uniti del primo dopoguerra, dove diventa operaio della Ford e non soccombe per un pelo annientato dalla società di massa nascente. Qui conosce Molly, una prostituta che lo ama veramente e che lo sprona a essere se stesso, anche a costo di perderlo. Anche lui la ama, a modo suo, dedicandole le pagine più toccanti e liriche di tutto il libro. Ritorna in Francia, diventa medico, apre uno studio e fa la fame in un degradato sobborgo di Parigi, infine inizia a lavorare presso un istituto di igiene mentale. Léon Robinson è il suo compagno di sventure, nonché alter ego, grillo parlante, antieroe vile e assassino.

 

 

Pessimista sconfortato, Céline restituisce al lettore il senso di aver toccato il fondo e grattato tutto il marcio che vi si trova, non perdonando niente al genere umano, alla società, alle istituzioni, alla politica e alla vita in generale. Verso la fine del libro, il narratore Bardamu, che sta lavorando in un manicomio, sottolinea che la famiglia e l’uomo sono una sorta di «marciume sospeso», che «non si sale nella vita, si scende», «istruzione e forza» aiutano a capirlo.

Ma il vero exploit letterario in “Viaggio al termine della notte” Céline lo compie nello stile e nell’uso del linguaggio. «Ho inventato una lingua antiborghese» dirà a un giornalista. «La sua lingua è di fatto diversa dal francese schematico, logico, cartesiano, che allontana da sé la lingua viva ossia il parlato», ci dice Stefano Lanuzza, uno dei più grandi conoscitori dell’opera céliniana in Italia.  Come scriverà in “Bagatelles”, lui era contro «il francese degli studi classici, […] ripulito, […] strofinato, […] accademia Goncourt, […] il francese schifoso per eleganza» e piuttosto «ideale continuatore del superespressivo Rabelais». Il linguaggio usato si declina a perfezione con i suoi personaggi, abbondano le ellissi, le iperboli e l’argot, l’oralità della fauna umana contemplata. Appena uscita, l’opera fu accolta con successo: era un comune argomento di conversazione serale. Anche Simone de Beauvoir racconta che lei e Sartre impararono a memoria interi brani del romanzo, e che Sartre ne aveva fatto un modello.

 

 

Peccato che Céline sia stato giudicato male per il suo antisemitismo e collaborazionismo, costretto persino all’esilio. Altri scrittori o uomini politici che si sono esposti molto più di lui non hanno avuto lo stesso trattamento. Anche Dostoevskij era antisemita e Mitterand s’intratteneva con filonazisti. Non era un fenomeno isolato. Accadeva che scrittori e politici frequentassero personaggi influenti conniventi con il potere, e che si esprimessero a favore di politiche razziste e a servizio dei governanti dell’epoca. Ad ogni modo bisognerebbe distinguere l’opera dal suo autore. Opera che lui stesso definisce comunista.

Nella lettera che scriverà a Gaston Gallimard, nel 1932 per ottenere una pubblicazione, descrive il suo capolavoro come un grande affresco, populismo lirico, comunismo con un’anima. Un’opera birichina, viva. Settecento pagine di viaggi attraverso il mondo, gli uomini e la notte, e l’amore, l’amore che t’insegue, ti rovina, e che ti lascia sconfitto, ancor più miserabile, solo e svuotato.

 

 

Un magistrale spaccato del secolo scorso. Un ritratto che non perdona. Un’umanità degradante e degradata che si riscatta nella parola orale gergale e nella parola scritta innovativa e iconoclasta. Senza gesti eroici. Senza morali sovrastanti. Senza religioni. Una nuda e cruda libertà di parola. Di pensiero. Tanto tutto si putrefà. Prima o poi.

Prima puzza. E poi mentre il corpo diventa polvere le parole scritte rimangono e si fanno veicolo di argot vivente.

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

 

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