UNA STANZA TUTTA PER SÉ, di Virginia Woolf
Avete mai sentito parlare della sorella immaginaria di Shakespeare? Judith?
O delle sorelle immaginarie del grande poeta, scrittore, uomo di teatro e quant’altro? La provocazione di queste domande mi ha accompagnata negli anni dell’università. Erano gli anni Settanta/Ottanta, il femminismo animava la mia sete rivoluzionaria più di ogni altro movimento e per me l’opuscoletto della Woolf era una specie di Bibbia, una guida fondamentale per una giovane donna qual ero, con tanta voglia di affermarsi e di usare le parole per farlo.
Ricordo di aver molto sognato una stanza tutta per me, che purtroppo non ho mai avuto, sia da figlia, che da sorella (non di Shakespeare), che da studentessa e poi, da madre. Ma sono grata alla vita che mi ha dato la possibilità di studiare e di farmi spazio per coltivare le mie passioni accanto agli studi e alle letture. È vero che fra me, la Woolf e l’anno in cui scrisse questo libro ci sono circa un secolo e mezzo. Nel frattempo tante donne si sono laureate e hanno avuto accesso alla grande biblioteca del mondo, uscendo dalle cucine e dall’oppressione del lavoro domestico, al servizio dell’uomo.
È vero che a qualcuno può sembrare obsoleto questo libro. Soprattutto oggi, dove co-working e co-sharing spostano la dimensione di camera alla condivisione tecnologica in spazi comuni. Eppure, rileggerlo a distanza di anni mi è sembrato ancora potente e decisamente significativo. Un testo fondamentale per il suo valore storico, empatico, emotivo e rivoluzionario. È proprio vero: «una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé per poter scrivere». Partendo da questo concetto, ripreso nel titolo, la Woolf afferma che è necessario disporre della propria libertà per creare arte, e questo è vero per tutti, uomini e donne. La differenza sta nel non avere all’origine gli stessi mezzi per raggiungere l’obiettivo.
Una stanza tutta per sé (A Room of One’s Own) fu pubblicato per la prima volta nel 1929 in seguito a due conferenze tenute in due college femminili dell’Università di Cambridge, l’anno prima.
Judith “la sorella di Shakespeare” è una figura ipotetica e mai esistita. A differenza del fratello, anche se talentuosa quanto lui, non ha possibilità per esprimersi: è oppressa dal lavoro casalingo e viene costretta a fare una vita di sacrificio, al servizio degli altri. Questo stratagemma letterario viene utilizzato dalla grande scrittrice per illustrare le mancanze, le negazioni e i soprusi tipici del mondo femminile. Se poi accade che si voglia fare altro, allora, si diventa agli occhi di tutti folle o meretrice. Le strade indicate sono quelle del volere del padre. La storia di Judith si concluderà con una gravidanza forzata e il suicidio. I ruoli imposti, una vita non scelta, sono temi e riflessioni importanti, ma la Woolf non si sofferma solo su questo.
Il merito storicamente più riconosciuto all’opera, è il tentativo di tracciare una storia delle scrittrici, partendo da Aphra Behn, per arrivare a Jane Austen, le sorelle Brontë e George Eliot. Nelle pagine di queste audaci scrittrici emerge un sentimento dirompente: la rabbia. È una grande ingiustizia non aver avuto le stesse possibilità riservate all’altro sesso.
Virginia Woolf sottolinea quanto sia difficile per le donne riuscire a liberarsi dal peso della parola maschile. Nel romanzo – saggio, Virginia Woolf arriva alla conclusione che per poter uscire dalle costrizioni di una vita scelta da regole maschiliste e patriarcali si deve sviluppare una mentalità androgina, che si libera dal peso della costruzione psicologica maschile e femminile, permettendo di vedere le cose obiettivamente. Se questa idea viene ancor oggi contestata dal femminismo, poiché appare come un compromesso con il lettore maschile, completamente escluso all’inizio del saggio, il testo rimane un caposaldo in campo letterario, politico e sociale, essendo il primo saggio moderno della letteratura femminista.
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