STORIA DI UNA CAPINERA, di Giovanni Verga
Recensione 1
Nelle sere prossime all’estate in quest’isola mediterranea che mi ha dato i natali, la cui luce del giorno tarda a spegnersi e il sonno tarda ad arrivare, un breve racconto, iniziato e finito, dovrebbe essere un buon sonnifero per cedere alle braccia di Morfeo.
Ed è così che ho deciso d’intraprendere “Storia di una capinera”, il famoso primo romanzo del mitico autore de “I Malavoglia”; memore anche dei ricordi nostalgici dell”ultimo anno di liceo il cui mio unico pensiero dominante era superare nel modo più brillante possibile il fatidico esame di maturità.
Non lo avessi mai fatto!
La struggente, dolorosa storia di Maria, narrata in forma di monologo epistolare, costretta a farsi monaca di clausura a causa della povertà di un padre incapace e del volere di un’arcigna matrigna, mi ha tenuta sveglia oltre il lecito, procurandomi un groppo alla gola e una rabbia da far aggrovigliare le budella (tanto per citare una frase alla “Pretty woman”).
E ho passato ore a chiedermi: ma come si fa a privare della libertà una ragazza, amante della vita, dell’aria, del sole, del profumo dei fiori, innamorata dell’amore, cementandola, contro il suo volere, in quattro aride mura di un luogo lugubre, funesto che prende il nome di convento? Come si costringe a darla in sposa a un Dio sordo?
Maria è una creatura piegata alle barbarie dei divini voleri di un dio assente che ha ceduto il suo potere all’essere più imperfetto che abbia mai creato.
Un dio carnefice nel suo assoluto silenzio che gode impassibile delle sofferenze e malefatte dell’uomo sull’uomo e, con il pretesto di avere dotato la sua creatura, fatta a sua immagine e somiglianza, del fatidico “libero arbitrio”, se n’è lavato le mani: un Ponzio Pilato dei cieli.
Povera Maria, picciridda meschinella in cerca di rassegnazione, rinchiusa in una gabbia dalle grate arrugginite dall’apatia del tempo, proprio come la timida, triste, malaticcia capinera, e persa nel suo delirio il cui unico peccato è amare.
E si sa che per chi ama davvero nel fanatico mondo immaginario degli uomini la pazzia va a braccetto con il nobile sentimento.
L’impotenza che ho provato leggendo a voce sommessa, complice il silenzio notturno, le accorate epistole di Maria indirizzate all’amica Marianna, interlocutrice muta che a differenza della “nostra” ha avuto il coraggio di scegliere la libertà, mi ha innalzato i livelli di un’adrenalinica irritazione verso tutto quel genere umano che per inerzia, cattiveria, bene proprio, paura non si accorge, o se ne accorge e si mostra indifferente, di quanto male infligge alle anime deboli e tremanti invocando voleri divini il cui Dio, forse, non c’entra nulla. E la cosa più atroce è che oggi nell’anno del Signore 2021 nelle sfere di una scienza prossima all’universo, l’uomo è contro uomo (per parità di genere devo dire anche la donna contro donna, altrimenti succede un casino)e la situazione di carnefice e vittima non è cambiata (vedi spose bambine, quartieri malfamati, povertà, guerra, il tutto condito dai soliti “voleri divini”).
Nondimeno, ritornando al racconto vi posso dire che se all’inizio mi è sembrato di leggere una bella favola i cui ingredienti ci sono tutti: un padre sottomesso al volere di una donna, matrigna acida, una sorellastra che tutto può, piccola cocca della mamma, il principe azzurro nelle vesti del bel Nino, senza cavallo bianco e senza spada, e la nostra creaturina Maria che proprio come la “culosa” Cenerentola è vittima di tutte queste figure aride, l’epilogo della bella favola si spezza nello straziante svolgersi del destino terreno dove i miracoli sono solo suggestioni dell’esaltazione religiosa.
Nessuna fatina appare dal nulla, nessuna zucca, nessun rito magico, soltanto un Cristo in croce immobile nella sua cristallizzata sofferenza immortalata nelle fattezze di un pezzo di legno
“Perchè m’hanno chiusa qui? che ho fatto? perchè quelle grate, questi veli, quei chiavistelli? Perchè quelle preci lugubri, quelle lampade fioche, quei visi pallidi, spaventevoli, quel buio, quel silenzio? che ho fatto? Dio mio! che ho fatto? Voglio andarmene! voglio uscire di qui! non voglio più starci! voglio fuggire… Aiutatemi! aiutatemi, Marianna! Ho paura; sono rabbiosa; voglio la luce; voglio correre!”
Recensione 2
“Storia di una capinera”, romanzo epistolare di Giovanni Verga, scritto nel 1869 e pubblicato a puntate in alcune riviste prima di essere edito come libro nel 1871, punta il dito, così come aveva fatto già il Manzoni nei suoi “I promessi sposi” con il personaggio della Monaca di Monza, sul problema delle false vocazioni che nascondevano in realtà delle vere e proprie costrizioni operate dalle famiglie nei confronti di quelle figlie femmine che, per svariati motivi ed in primis quelli economici, venivano costrette a farsi monache e a rinchiudersi in convento a dispetto di ogni loro personale desiderio.
Ispirato ad una vicenda vissuta dallo scrittore nella sua gioventù, la storia di Maria, delicata fanciulla orfana di madre, costretta alla segregazione in convento già dall’età di sette anni, è appassionata e straziante, piena di malinconia, di rabbia e frustrazione, di anelito verso una libertà proibita e verso sentimenti ed emozioni semplici e pure che con struggente poesia traspaiono dalle pagine.
Come quella capinera di cui Verga ci racconta all’inizio del romanzo per motivarcene il titolo, quell’uccelletto rinchiuso in gabbia senza alcuna volontà e forza di ribellione, con uno sguardo “che avrebbe potuto dirsi pieno di lacrime” nel vedere gli altri uccellini cinguettanti sui prati verdi inondati dal sole, così anche la piccola Maria, dopo aver scoperto che il mondo fuori può essere fonte di gaiezza e d’amore, deve immalinconire di nuovo tra quelle quattro mura umide e buie per trascorrere una vita che non è la sua.
Maria con il suo cuore tenero, la sua timidezza, la sua comprensione verso gli altri, le sue preghiere piene di fede, i suoi incolpevoli errori, sacrifica la sua vita all’altare di una sofferente impotenza, implodendo di dolore, di mortificazione, di pianti fino a sfinirsi nella mente e nel corpo, consumata dall’assenza di affetti, di sentimenti, di aria, di vita.
Recensione di Maristella Copula
STORIA DI UNA CAPINERA Giovanni Verga
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