PREMIO GONCOURT 2021: LA PIÙ RECONDITA MEMORIA DEGLI UOMINI, di Mohamed Mbougar Sarr (E/O)
Romanzo vincitore del Premio Goncourt 2021…”E chi se ne frega?”, dirà qualcuno. “Bisogna fregarsene, invece, perché i francesi sì che hanno grandi scrittori, mica come gli scrittori italiani!, per questo il Goncourt è sempre sinonimo di qualità”, dirà qualcun altro. In casi come questi, io ascolto tutti ma non do ragione a nessuno in particolare. Da un lato, perché secondo me è una sciocchezza affermare, ‘per principio’, che tutti gli scrittori francesi sono più bravi di tutti gli scrittori italiani. È una sciocchezza proprio da un punto di vista logico, non ci vuole molto a capirlo. Non lo capiscono solo certi lettori italiani, che si sentono fighi a disprezzare tutto ciò che fanno gli italiani. ‘Per principio’, appunto. E non è neanche vero che il Goncourt è sempre un marchio di eccellenza. Per esempio, nel 2021 fecero passare L’Anomalia, di Hervé Le Tellier, come un grande capolavoro; cosa che non è: un romanzo godibile, con buoni spunti e parecchi punti irrisolti, ma a mio avviso ben lontano dalla ‘grande letteratura’. C’è da dire, tuttavia, che La più recondita memoria degli uomini è davvero un gran bel romanzo, meritevole di un premio tanto prestigioso come il Goncourt. Ma è un romanzo talmente bello che, sì, diciamolo, un bel ‘chi se ne frega’ ci sta tutto: La più recondita memoria degli uomini, più che i premi e i riconoscimenti, è un bellissimo romanzo che merita di essere letto, a prescindere (e, mi verrebbe da dire, nonostante) i premi e i riconoscimenti.
Questo romanzo… che dire? L’ho semplicemente divorato. Leggere mi piace, ma non mi capita tutti i giorni di trovare un romanzo che mi cattura, come lettore e prima di tutto come persona. Un romanzo che mi trascina nelle sue pagine, che mi fa vivere nel flusso tumultuoso delle sue parole, dei suoi racconti. Uno dei pochi scrittori che riesce in questa impresa è Roberto Bolaño, al quale il giovane Mohamed Mbougar Sarr chiaramente si ispira e paga doveroso e sentito omaggio. Così come Detective Selvaggi raccontava la ricerca della poetessa Cesárea Tinajero, fondatrice del Realismo Viscerale, e 2666 raccontava la ricerca del misterioso scrittore Benno von Archimboldi, così La più recondita memoria degli uomini racconta la ricerca dell’elusivo T.C. Elimane, scrittore senegalese di cui si è persa ogni traccia da svariati decenni, autore di un solo romanzo (scritto in francese e pubblicato in Francia) intitolato Il labirinto del disumano. E proprio come nei romanzi ‘maggiori’ di Bolaño, così in questo romanzo c’è una pluralità (quasi una ‘disunità’) non solo di tempi (con continui rimandi a passati recenti e remoti), ma anche di spazi (viaggiamo da Parigi ad Amsterdam, dall’Argentina al Senegal), nonché di azioni (attraverso il diramarsi di trame e sotto-trame). Anche il titolo stesso, del resto, non è che una citazione di Detective Selvaggi!
Oltre che superficiale, però, fermarsi a questo livello di lettura sarebbe anche ingiusto nei confronti del giovane (e talentuosissimo) Sarr. Che stupido sarebbe limitarsi a definirlo ‘il Bolaño senegalese’ (così come stupidissimi erano stati i critici di T.C. Elimane a definirlo ‘il Rimbaud africano’). Bisognerebbe semmai chiedersi perché Sarr, senegalese che scrive in francese, decide di prendere a modello un autore come Bolaño. Se l’Africa non ha una tradizione letteraria scritta, qualsiasi africano che voglia scrivere ha davanti a sé due alternative: o ispirarsi alla tradizioneletteraria dei propri invasori e colonizzatori, e quindi provare in un certo senso a ‘diventare bianco’, oppure partire dalle foglie e dai rami per arrivare a inventarsi le proprie radici. Sarr fa dunque così, ispirandosi, rubando e prendendo a prestito da uno scrittore che, fuggito dal Cile dopo il colpo di stato e diventato poeta in Messico, ha poi trovato fortuna editoriale pubblicando in Spagna. Uno scrittore la cui patria era la propria lingua e i propri affetti. La vera letteratura ‘post-coloniale’, sembra dirci Sarr, è quindi quella che va al di là dei discorsi, o addirittura dei concetti, di ‘colonizzato’ e ‘colonizzante’, che si affaccia al mondo, che si rivolge ai fuggitivi, agli esiliati, agli espatriati e agli apolidi, cioè a coloro che vivono rispettando solo e unicamente le frontiere del linguaggio, non le dogane artificiali o le linee tracciate sulle mappe, ma mai sui territori reali.
Non a caso, uno dei temi affrontati in questo grande romanzo è quello dell’identità. Al giorno d’oggi, ci ricorda Sarr, le donne devono scrivere della loro esperienza di donne, gli omosessuali devono scrivere della loro esperienza di omosessuali, gli africani devono scrivere della loro esperienza di africani. Fino a qualche tempo fa, tutti questi doveri etici ed estetici imposti alle cosiddette minoranze facevano sì che gli scrittori bianchi maschi etero rimanessero liberi di scrivere praticamente di tutto il resto, ma adesso anche per loro sta finendo la festa, anche a loro si vanno imponendo doveri e restrizioni creative: che scrivano, dunque, solo e unicamente della loro esperienza di maschi in crisi, oppure che non scrivano più nulla, e amen. Tutto questo ce lo dice Sarr, ma mica solo lui: il discorso non è nuovo (Walter Siti c’ha pure scritto un saggio, a tal proposito). Ma Sarr lo prende, questo discorso sulla letteratura, lo trasforma in materiale letterario. I suoi protagonisti (Diégane, giovane scrittore senegalese che va alla ricerca di T.C. Elimane, e Siga D., scrittrice anche lei senegalese, che ha un qualche rapporto di parentela con l’elusivo Elimane, e che ha definitivamente tagliato i ponti con la propria patria) ‘lottano’ con le loro identità ‘ricevute’ per crearsi liberamente la propria. Un vero scrittore africano, una vera scrittrice africana, non deve scrivere sentendosi in dovere di comunicare ‘l’africanità’ e l’esotismo ai lettori (bianchi). Un vero scrittore africano deve essere, prima di tutto, uno scrittore. In quanto tale, se vuole e se ci riesce, può scrivere di Parigi, o di Amsterdam, può scrivere un romanzo borghese, o un romanzo di fantascienza. Un vero scrittore africano, se è uno scrittore vero, smette di essere ‘africano’, di ‘rappresentare’ tutti gli africani, di farsi ambasciatore dei ‘messaggi africani’ e delle ‘questioni africane’, e diventa sé stesso. Il che però non significa che il vero scrittore, per non sentirsi obbligato a parlare di questo o di quello, deve quindi scrivere solo e unicamente di sé e darsi all’auto-fiction (come se di opere di auto-fiction ce ne fossero poche in giro…). In un senso che è chiaro soprattutto a chi ama la letteratura, i veri scrittori, per diventare sé stessi, devono prima liberarsi del proprio sé.
Collegato a questa presa di posizione coraggiosamente ‘fuori moda’ e anti-‘identity politics’, c’è il problema del rapporto fra letteratura e vita. Che in certi contesti e in certi momenti storici non può non essere il problema fra scrittura e politica. Che senso ha scrivere un romanzo borghese, o un romanzo di fantascienza, o un giallo, o un fantasy, quando fuori imperversano rivolte e battaglie, stragi e ingiustizie? Si può scrivere quando fuori c’è la fame, la corruzione, la crisi e la guerra? Che senso ha essere uno scrittore se non si smuovono le coscienze, se non si diventa portatori di un ‘messaggio politico’, se non si scrive un ‘romanzo civile’? La risposta di Sarr è una e una soltanto: l’unico messaggio possibile della letteratura è la letteratura, ovvero la libertà. Tant’è che gli scrittori veri incontrano la propria libertà nella schiavitù della letteratura, e solo della letteratura. Totalmente inutile e fine a sé stesso, infatti, il gesto della scrittura è ciò che eleva, libera, forma e compie. (Lo stesso dicasi della lettura, se e solo se si svolge nell’otium e non è motivata, o ‘obbligata’, da fini secondi e terzi, come il desiderio di ‘essere migliori’, l’esigenza di ‘sapere cosa sia giusto e cosa sbagliato’, eccetera eccetera.)
Tutta questa, però, non è che ‘teoria’. Ripeto: Mohamed Mbougar Sarr prende queste tematiche e le trasforma in storie, in trame, in racconti che si compenetrano, che si completano a vicenda, che ci trascinano in una grande avventura fatta di donne impazzite, veggenti poligami, suicidi misteriosi, lettere mai recapitate, leggende, sommosse popolari, scrittori smarriti nel loro pellegrinaggio insensato, editori idealisti e libertini, Ernesto Sábato e Witold Gombrowicz, il passato che diventa futuro, la memoria, il corpo, il sesso, l’amicizia, l’amore, il dolore, la morte, la vita, il silenzio, l’inarrestabile movimento del linguaggio.
Semplicemente imperdibile!
«Molto tempo dopo capii: avere una ferita non implica che si debba scriverla. Non significa nemmeno che si pensi a scriverla. E non ti sto parlando del poterlo fare. Il tempo è assassino? Sì. Scava in noi l’illusione che le nostre ferite siano uniche, ma non lo sono. Nessuna ferita è unica. Niente di umano è unico. Nel tempo tutto diventa terribilmente comune. Ecco il vicolo cieco. Ma è proprio in questo vicolo cieco che la letteratura ha una possibilità di nascere».
Recensione di Vincenzo Politi
PREMIO PULITZER 2002: IL DECLINO DELL’IMPERO WHITING Richard Russo
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