IL FILO INFINITO Paolo Rumiz

IL FILO INFINITO Paolo Rumiz

IL FILO INFINITO, di Paolo Rumiz

Gomitoli, fili, trame ed intrecci. Ne “Il filo infinito” l’autore si fa pellegrino contemporaneo e scova, in luoghi appartati e lontani dal mondo, comunità monastiche seguendo un filo, che è quello delle tonache benedettine.

Non lo fa tanto per ritemprare spirito e corpo, sebbene ogni incontro sia per lui una pseudo rigenerazione sensoriale, quanto per indagare, come un meticoloso detective, le radici del concetto di Europa, le origini ed i valori di una concezione del vivere pluralista ed accogliente, nella speranza poi, di trovare una formula che la possa salvare, questa Europa malridotta, riportandola alla sua compattezza, pur nel rispetto delle sue importanti diversità.

 

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Il santo Benedetto, patrono d’ Europa, così fortemente legato al mondo ctonio, alle grotte, alla terra e alla sue più recondite e sommerse energie, partendo dalle rupi dell’Italia centrale portò una vera rivoluzione , organizzando territori, trasformando terre incolte e spazi selvaggi in luoghi produttivi e facendo dell’accoglienza e dell’ ospitalità una regola di vita. Rumiz girovaga tra le abbazie, in Italia, in Svizzera e Francia, in Baviera e Pannonia, raccoglie messaggi, rivolge domande, osserva ed ascolta, che sia musica d’organo o il canto gregoriano, che siano versi di rondone o bisbigli appena accennati,che sia il frusciare di tonache, cigolii di porte o il canto del gallo.

 

IL FILO INFINITO Paolo Rumiz

 

Si aggira fra cantine di vino, legge antiche pergamene come frate Guglielmo da Baskerville, si sveglia all’alba per assistere alle preghiere mattutine, condivide in silenzio il cibo nei refettori, si perde fra corridoi e stanze come fossero labirinti, scende in cripte affrescate, provando sulla sua pelle quanto sia salutare questo vivere cosi frugale, una disintossicazione dal frastuono e dal superfluo che c’è là, fuori.

Abbazie come arche in cui rifugiarsi, navi ove aggrapparsi e condividere un modello di vita in comune, per quei tempi assai innovativo. Rumiz auspica che questo archetipo di vita collettiva, regolata da norme rigide ed improntata al lavoro manuale ed alla preghiera, archetipo di vita materiale e spirituale insieme, come riuscì ad affascinare, stupire, convincere il barbaro straniero nel Medioevo, possa affascinare, stupire e convincere anche il barbaro dei nostri tempi.

 

 

Un luogo chiuso ma anche aperto, dove l’individuale e il collettivo si sposano alla perfezione nei canti all’unisono, negli stessi respiri, nella condivisione gioiosa del proprio compito, nell’osservazione ed ascolto dell’altro, acuito , il tutto, dall’imposto silenzio. Più che ordine, emerge un disordine democratico, quasi l’ unica forma di comunismo che abbia funzionato, una vera scuola di socialità e del buon vivere, la valorizzazione del singolo per il benessere di tutti, il rispetto del territorio, il contatto diretto con la natura.

 

 

Rigore, precisione, scansione del tempo, meticolosità del quotidiano, così da secoli, come un orologio che non si inceppa mai. Che siano conventi rococò fra campi rigogliosi, o rustici monasteri su dirupi scoscesi, fra montagne, colline o isole, che siano dediti alla scrittura amanuense o a produrre acquaviti e birre, sono luoghi, sembra dirci l’autore, dove non si vuole cambiare il mondo, ma chi ci sta dentro, sì, dove l’ energia del luogo si respira ad ogni ciabattare di sandali, quasi che provenisse dal basso, più che dall’alto. Il suo viaggio inizia a Norcia, all’indomani del terremoto del 2016, ed è sempre qui che vuole chiudere il cerchio, aggirandosi, fra le macerie dell’abbazia di S.Benedetto. In tale scenario di apocalisse, fra sventramenti e distruzione, l’autore rintraccia un senso di rinascita, quella fertilità primigenia dell’Appennino, cuore e centro del Mediterraneo, montagna femminile come grembo materno, con gole rocciose come uteri minerali, approdo sicuro dal vociare aggressivo e dal materialismo imperante.

Il gomitolo di filo sarà pronto per essere nuovamente tessuto?

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