UN CASO POP PER L’ISPETTORE IANNACCI Jim Ritz

 

UN CASO POP PER L’ISPETTORE IANNACCI, di Jim Ritz (Jonathan Rizzo) (Puntoacapo – aprile 2022)

 

            La forza del testo è quella di non appartenere a nessun tipo di genere, di sfuggire alle classificazioni, alle etichette, alle aspettative, ai ruoli. Un autore, un ispettore, un caso pop appunto!

Vi sono due giganti appostati, uno in copertina e uno in esergo: due possenti figure volutamente messe lì dal giovane e esile autore. Jannacci e Poe. Sono due tributi a due grandi poeti che in qualche modo hanno ispirato questo libro.

 

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L’omaggio a Vincenzo Jannacci, un dio della poesia-canzone pop è sottilmente svelato nel titolo, nel nome del protagonista, però senza la “J”. Come sottolinea Jonathan, in un’intervista online, questo scambio semivocalico è un segno di rispetto nei confronti dell’anima poetica di Jannacci, ma anche un indizio sulle maschere.  «Togliere la “J”, che è la mia lettera, l’iniziale del mio nome, è un segnale chiaro che voglio dare. Io mi metto in secondo piano, mi tolgo dalla scena del crimine e mando avanti lo pseudonimo.»

 

 

Invece è più complesso avvicinarsi ad Edgar Allan Poe. Nella dedica, viene definito: «il primo». Il primo cadavere sul quale indagare? E allora rileggendo i dettagli della morte del grande scrittore incompreso del secolo scorso, emerge una fine in solitudine e in agonia. L’autore americano fu trovato accasciato su un marciapiede, trasportato in ospedale, ma a niente valsero i tentativi di rianimarlo. Ma se il corpo ormai non c’è più, che dire dell’artista? Si è dileguato anche lui con la parte fisica di Poe? O si è semplicemente diviso? Così che oggi noi possiamo ancora fruire della compagnia dell’artista che fu e che continua ad essere oltre il tempo? Sempre vivo, sempre in discesa libera. Quasi un caso pop per il nostro ispettore invece intento a decifrare le malvagità dei corpi trovati senza vita, senza dignità.

 

 

Edgar Allan Poe è stato l’iniziatore del racconto poliziesco, della letteratura dell’orrore e del giallo psicologico, scrivendo anche storie di fantascienza e avventura. Accanto, la sua anima di poeta romantico lo ha visto comporre versi anticipando il simbolismo e les poètes maudits.

Non sorprende che la sua vita e opera abbiano intrigato Jonathan Rizzo, tanto da onorarlo in questo piccolo romanzo poliziesco. Inoltre la trama pulp e hard-boiled più che a Chandler o Hammett deve molto al primo grande maestro. Il lettore si appresta a leggere un ‘vero’ caso pop per l’ispettore Iannacci, o meglio, nel gioco delle maschere e dei rimandi letterari, per il poeta scrittore Jonathan Rizzo, che defilato, si trova però, malgrado la sua volontà, impigliato nella maschera dello pseudonimo, intrappolato nel corpo decadente ma che ispira simpatia di un protagonista antieroe.

Fra gli ispiratori del genere, Jonathan Rizzo rivela di aver tratto spunto anche dalle opere di Simenon e Gadda. «Leggere insegna a leggere, peccato che la gente non legga». In questa società di marketing il libro è diventato un bene di consumo. Non importa leggerlo, basta comprarlo. Lo pseudonimo è un gioco, il libro una scatola magica piena di maschere, il genere una critica al sistema letterario culturale artistico poetico nazionale. “Un caso pop per l’ispettore Iannacci” è stato scritto contro tutti quelli pronti a criticare.

 

 

Il protagonista non è capace di far nulla, non vuole far nulla, vuole solo essere lasciato in pace e godersi la vita per quello che è, come capita, con una bistecca, un bicchiere di vino o uno shottino di whisky e, perché no, anche con qualche incontro amoroso clandestino. Nei suoi giri frenetici delle indagini non riesce a tornare a casa e l’uomo che il lettore impara a conoscere è fuori da ogni schema. Fuori di casa.

Di fatto, tutti i personaggi vengono descritti non fisicamente ma piuttosto in rapporto all’ambiente in cui si muovono. E portano una maschera. Fanno eccezione le vittime. Loro, sì le vediamo nelle loro case. Ma è un losco vedere. Hanno tutte un vizio, un’ossessione, un qualcosa che turba i benpensanti e questo girovagare per le loro case è strettamente essenziale alla risoluzione del caso.

L’ispettore indossa lo scarto del personaggio pubblico che fa finta di non dare importanza ai casi e invece poi non riesce a staccarsene finché non li risolve. È vero che in fondo una casa non ce l’ha – se per casa s’intende un affetto; ma è altrettanto vero che fuori c’è un mondo che ha bisogno di gente come lui, libero dalle intricate tele del privato. Si nasconde in lui un’anima gentile, solo apparentemente burbera. Il suo è un non-tempo, un anacronismo. Non ha il cellulare – rifiuta i metodi comunicativi moderni.  Si può intravedere l’Ispettore Iannacci dietro a tutte le maschere che negano o nascondono la sua individualità, che non è «un muro tra le persone, piuttosto una pagina da regalare al grande libro di cui tutti siamo gli autori» (L’illusione parigina, p 16) Anche la città in cui vive non è uno spazio riconoscibile. Potrebbe essere Milano, Firenze, Bologna, chissà. Comunque una città di cui tutti siamo gli abitanti nel libro di cui tutti siamo gli autori. Eccoci co-protagonisti, co-autori, co-lettori – collettori – di tempi e spazi esclusivamente letterari.

 

 

Come nota Emanuele Spano nella postfazione «giocare con le citazioni, con i cliché, con gli ingredienti del genere, senza cadere nella caricatura non era cosa facile, così come non era facile non fare del detective una sorta di icona, per quanto antieroica, della resistenza a una contemporaneità scialba, vuota e tragicamente ripetitiva.»  (p 62)

Una scena in particolare mi è piaciuta molto. Siamo su un autobus di linea che l’ispettore ha preso per recarsi nella casa di riposo dove si è appena svolto il secondo delitto. Ovviamente viaggia senza biglietto e viene multato. Ma prima una ragazzina di tredici anni lo fa sedere al posto suo facendolo commuovere e il gesto successivo, una carezza, viene subito guardato male da una viaggiatrice. Mentre la «beghina adesso sorride, giustizia divina è fatta» (p 23), l’ispettore non si abbassa al suo livello, rimane ancorato alla sua realtà, che non è certo quell’autobus di persone ipocrite e giudicanti. Lui non si ferma agli aspetti esteriori. Reagisce: «ha una strana sensazione in sé, un sentimento che non gli piace affatto. Gli omicidi sono come le ciliegie.» (p 23)

 

 

L’autore, ironizza, definisce il libro “un romanzo filosofico scritto con una prosa poetica”, un divertissement – appunto uno scostarsi dalla poesia. Scritto a Parigi nel 2015, accanto all’esperienza diaristica (o esperienza di vita) di quasi 600 pagine, la già citata “Illusione parigina”, edita da Porto Seguro nel 2016, “Un caso pop per l’ispettore Iannacci” è stato per Jonathan, un gioco, uno sfogo. Un regalo-vacanza dalla poesia. Per vedere cosa succede sperimentando la narrativa. «Niente, non succede nulla. Non ci sono riuscito!»

Jim Ritz, alias Jonathan Rizzo, non sarà forse riuscito a vedere cosa succede, ma a smascherare certi cliché e a far divertire il suo lettore in un gioco di finzioni, direi che ha fatto centro: «la scena del delitto è come un quadro astratto, solo il pittore ne capisce il senso. Il critico d’arte finge per lo stipendio e a fine mese il pubblico più non comprende più ne rimane affascinato.» (p 23)

 

 

E forse perché non capisco, afferro, io lettrice una verità che ci viene brutalmente scaraventata in faccia: la nostra solitudine. Che si combatte come si può. Sognando. «Una birra fredda e la sua amata bistecca […] L’Ispettore Iannacci si addormentò come un bambino felice che ad altro non voleva pensare.» (p 58) “È una storia di tutti i tempi / una storia di povertà” canterebbe il poeta Jannacci. «L’età d’oro è l’infanzia» aggiungerebbe il diarista Jonathan Rizzo: «Non crescete bambini, non abbiate fretta, continuate a giocare con il tempo.» (L’illusione parigina, p 38)

Un caso ne chiama un altro. A quando il prossimo Jim Ritz?

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

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