GITA AL FARO Virginia Woolf

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GITA AL FARO, di Virginia Woolf

Recensione 1

“Gita al faro” è semplicemente meraviglioso. La penna di Virginia Woolf magica. Non è facile parlare di questo libro: di fronte a una scrittura così alta, mi sento piccola piccola. E da piccola piccola cercherò di farmi coraggio e cercare le più belle parole per questo mio consiglio di lettura. Non parlerò né della trama, né dei personaggi, e ancora meno dell’ambientazione: argomenti questi ampiamente trattati. 

 

 

Non cercherò nemmeno di parlare di un genere letterario. Modernismo, stream of consciousness, anticonformismo, narratore omnisciente, femminismo, caratterizzazione dei personaggi, monologo interiore… argomenti troppo importanti per essere liquidati con tre parole. No, non cercherò di etichettare questo libro con un genere: la stessa Woolf non lo avrebbe apprezzato, a meno che… non fosse saltata fuori la parola elegia. Ecco, il carattere elegiaco e l’importanza che riveste nella prosa di “Gita al faro” sposta l’asse d’interesse e porta lo sguardo altrove. E per noi italiani, Einaudi nel 2014 ci prova a spostare, a smuovere a sgrondare.

 

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Con una introduzione insolita e una traduttrice innovatrice. Matar e Nadotti. Perché questo libro frantuma i codici. E bisognava riuscire a guardare il libro con uno sguardo diverso: e chi meglio di Isham Matar poteva suggerirci un nuovo approccio? Lo scrittore, nato a New York, da genitori libici, vissuto a Tripoli, e poi al Cairo, in Egitto, prima di trasferirsi a Londra, dove vive e lavora, scrittore pluripremiato e tradotto in più di quaranta lingue, scelto dal Festival Dedica 2020 (Pordenone, dal 21 al 24 novembre) restituisce un’immagine di Virginia Woolf che ha un sapore esotico, non europeo, insolito, affascinante e dal piglio sicuro e incisivo. Si trattava di rivedere il testo tenendo conto di alcuni aspetti della prosa della Woolf e in qualche modo fare trapelare la grande ricchezza della lingua inglese così come Virginia Woolf sa usare e restituirla con la ricchezza della lingua italiana.

 

 

Dice Anna Nadotti, la traduttrice: “se Virginia Wolf ci ha messo un anno a scrivere il libro, tradurlo ha richiesto ben più di un anno”. Nello specifico, racconta con sommo piacere (senza passione, non si può tradurre) che si è dovuta immergere in un rapporto letteralmente corpo a corpo con il testo. Le quaranta pagine del pranzo sono state un’impresa assai complicata: è riuscita a venirne a capo solo ricostruendo la scena, con il tavolo lunghissimo, i posti assegnati e gli invitati che via via arrivano e si siedono ai loro posti.

Muovendosi fra i commensali, la traduttrice è riuscita a tradurre magnificamente una delle scene più belle del libro che la stessa Woolf pensa sia uno dei suoi pezzi migliori. In una lettera alla sua amata Vita Sackwill-West scrive: «La cena è la cosa migliore che io abbia mai scritto: penso giustifichi tutti i miei difetti di scrittrice – il mio dannato ‘metodo’, perché non penso che si sarebbero potute raggiungere quelle particolari emozioni in altro modo». (“Scrivi sempre a mezzanotte”, Donzelli Editore, p.140) Il suo dannato ‘metodo’ che piace tanto a Vita: «posso solo dire che sono abbagliata e stregata. Come hai fatto? Come hai fatto a camminare sul filo del rasoio e non cadere? […] Tesoro, questo libro mi fa avere paura di te. Paura della tua capacità di penetrazione, e della tua grazia e del tuo genio. […] Ovviamente è del tutto ridicolo definirlo romanzo.» (“Scrivi sempre a mezzanotte”, Donzelli Editore, p.138-139)

Già il titolo, ci dice la traduttrice, dovrebbe essere “Al faro”, perché lì ci porta: rendendo questo luogo un sogno, un desiderio, una metafora della vita, dell’amore, della realizzazione di sé. Ma tutto questo solo se ancora al faro non ci siamo andati, perché quando arriviamo sul luogo, superando la distanza geografica, ci ritroviamo davanti una costruzione banale, un edificio privo di significato e attrazione. Il nostro io rimane deluso: sono le intime aspirazioni di ognuno di noi a rendere mitico il faro.

 

 

Vi è una metafora ricorrente in tutto il libro: la metafora dell’acqua. Le onde che ci separano dal nostro desiderio. Sono forse loro che cavalcate regalano pensieri e intuizioni migliori di quelli che la vita invece centellina? Perché? Che cos’è la vita? La struttura del libro riesce a vanificare la proiezione sulla realtà: Woolf usa le parentesi quadre per parlare della guerra, della morte della protagonista e di due dei suoi figli. Sono le cicatrici. Non c’è altro spazio nella scrittura. Solo una parentesi. Una rottura. Una ferita. La protagonista della vita reale è la morte. Ma, nel libro, forse la vera protagonista è la casa delle vacanze sull’isola di Skye. Una casa che nella prima parte del libro, la più lunga, di 120 pagine, brulica di vita, con otto bambini, amici e una coppia che si ama ma che rimane intrappolata nello stereotipo, dove però non cade il pensiero: lui rimane libero nell’aria. La casa raccoglie sogni, descrizioni e intreccia monologhi interiori e diverse aspirazioni.

Nella seconda parte, questa casa vuota, diroccata, diventa il simbolo dell’Inghilterra deturpata dalla guerra. Una casa invasa dalla vegetazione. In tre la rimetteranno su per accogliere gli ospiti che tornano, nella terza parte. Il numero esiguo delle persone riparatrici è una metafora per indicare chi in realtà rimetterà in piedi un paese mutilato: sono le donne e la classe operaia. Questo ci dice Virginia Woolf nella seconda parte che descrive il tempo che passa e la realtà di morte e di guerra in poche, pochissime, pagine. E nell’ultima parte, che ha come titolo ‘il faro’, la Woolf fa intravedere la fallacità, o meglio la non corrispondenza fra realtà e pensiero, aspirazione e vita, sentimento e relazione.

 

 

Una linea nera, una spaccatura nel quadro della pittrice divide in due la sua opera e diventa il simbolo del raggiungimento di quel che cercavamo: l’opera d’arte nel caso dell’artista. La bellezza, la complessità, la musicalità, la poesia: racchiusi in una visione: la visione della fine del libro, la visione della scrittrice, la visione della pittrice, la visione del lettore. La visione di un capolavoro, Perché “Gita al faro” è un capolavoro. Un classico. E come ricorda Anna Nadotti, Italo Calvino in “Perché leggere i classici”, dice: «un classico è come un libro che si configura come equivalente dell’universo al pari di antichi talismani». E se va elogiata Virginia Woolf che ha scritto un capolavoro, è doveroso elogiare Anna Nadotti che ha scritto (e non tradotto) un capolavoro! La sua opera è la sua visione di “Gita al faro” nella nostra bellissima lingua italiana, come Dante insegna. Senza nulla togliere all’originale. Semmai aggiungere! E io mi sento ancor più piccolina!

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto

Recensione 2

Virginia Woolf è stata una dei grandi talenti letterari del secolo scorso, scomparsa prematuramente e sconfitta , vinta da quel male dell’animo, che la tormentava da tempo in forma ingravescente.

Con Joyce , seppure in modo diverso, è stata una delle esploratrici del flusso di coscienza o meglio del monologo interiore, in quel periodo storico, in cui la grande letteratura cercava nuovi modi e strade da percorrere. Gita al faro, con la Signora Dalloway è uno dei grandi romanzi di Virgina.

 

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Non è un romanzo cadenzato dagli eventi, anzi vi accade ben poco o nulla ma è pieno di qualcosa di diverso: di pensieri, riflessioni, sensazioni profonde che scavano nei personaggi, mettendo a nudo ciò che realmente sono.

Quante volte ci siamo chiesti cosa ci sia dietro i silenzi delle persone assorte? In questo libro lo percepisci, senti quel magma che fuoriesce dal manto, che invade ed è a sua volta invaso. Il filo conduttore, da cui Virginia trae ispirazione per dispiegare le ali della sua sensibilità, del flusso delle sensazioni, è la gita progettata, non realizzata al momento ma terminata a distanza di decenni.

 

 

Nella prima parte, in quell’attesa di poche ore, Virginia ci mostra un mondo immenso attraverso gli occhi dell’anima della Signora RAMSAY, nel suo rapporto con il marito, i figli ed alcuni amici, tra cui Lilly Briscoe, che rappresenta ciò che è stata lei, per e verso sua madre Una breve seconda parte, appena una ventina di pagine, inframmezzata di notizie flash su alcuni personaggi, che ho trovato stupenda, parla del TEMPO, di cosa sia e abbia rappresentato. Il tempo visto attraverso la casa, in una descrizione di particolari favolosa.

L’ultima parte, venata da una malinconia ancora più forte, dalla decadenza, dalla nostalgia, dal rimpianto, è dedicata a questa gita, portata a termine a decenni di distanza, vissuta e testimoniata, raccontata senza parole, da chi è rimasto ed in particolare da Lilly Briscoe, legata da un filo indistruttibile all’amica perduta ma purtuttavia viva.

Un romanzo dalla prosa non facile, magari inadatto a chi è abituato all’azione. Ma se per un’attimo, vi fermerete a riflettere e seguirete Virginia nei suoi pensieri, vi scoprirete il MONDO. Bello davvero. Lo consiglio.

Recensione di Giuseppe Antonelli

 

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