Si, bene, però… L’APPELLO Alessandro D’Avenia

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L’APPELLO, di Alessandro D’Avenia

Recensione 1

Si, bene, però…
Ci risiamo. Per l’ ennesima volta vedo il prof.
Keating salire su un banco e i suoi discepoli,
dapprima incerti, salire a loro volta :
“Oh capitano, mio capitano ! “
C’è una corrente di intesa reciproca nei loro occhi e la fiducia degli alunni nel loro insegnante.
Per l’ennesima volta l’emozione mi travolge.
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Proprio nello stesso periodo, a proposito di insegnanti carismatici, ho letto l’ultimo libro

di Alessandro D’Avenia, uscito da poco.

E’ la storia di Omero Romeo, insegnante cieco

da cinque anni, che si trova a supplire in una classe problematica, all’ultimo anno di liceo.

Egli stesso in crisi, reso fragile dalla sua menomazione, s’inventa un modo particolare di fare l’appello : chiede a ciascun ragazzo di

pronunciare chiaramente il proprio nome e

di raccontare qualcosa della propria vita.

E’ cieco, quindi alla superficialità di uno sguardo per conoscere le persone sostituisce

l’ascolto della voce, il toccare il viso, il sentirne l’odore.

Pronunciare e sentir pronunciare il proprio nome è cosa molto meno ovvia di quanto pare.

” Le lettere del proprio nome hanno una terribile magia, come se il mondo fosse composto di esse.”

Pensiamo a quando il nostro nome viene storpiato anche di una sola lettera, ci sembra che l’interlocutore voglia misconoscerci, che

ci tratti con distacco.

Omero è professore di scienze e dice: sino a

che non lo identifichi e gli dai un nome, il fenomeno non esiste. E voi siete il fenomeno.

Poi parlano i ragazzi. Ettore sull’appello ci fa persino un rap, in cui chiama il prof. “capitano”.

Il modo di gestire la relazione mi ha conquistato, perché di lì bisogna passare

affinché ciascuno si senta vivo, presente ed

accettato.

Purtroppo le aspettative, proseguendo nella lettura, si sono rivelate più deludenti.

I ragazzi, ad uno ad uno, incominciano a parlare di se stessi.

Per essere emarginati e problematici, hanno

una strabiliante competenza linguistica e una capacità di analisi interiore da fare invidia a uno psicologo. Mah!

L’esperimento dell’appello si diffonde, viene richiesto da altre classi.

Purtroppo il preside e altri professori, gretti e limitati (secondo lui) ostacolano questa innovazione che in sintesi consiste nel portare avanti una visione della scuola dove la relazione coi ragazzi sia prioritaria rispetto ai programmi.

Ma, se sapersi relazionare è sicuramente importante, ed è questo il suggerimento da cogliere, tuttavia è – a mio parere – un punto

di partenza da riempire poi di contenuti.

Infine, è sconsolante che il carismatico di turno, sia il prof. Keating, sia il prof. Romeo

o altri ci facciano dire:

“Che fortuna capitare da uno di loro!”.

E’ come dire che il percorso educativo di un

ragazzo è affidato al caso, negando a tutti le stesse opportunità.

Almeno in partenza.

Recensione di Ornella Panaro

Recensione 2

“L’appello” (Mondadori 2020) di Alessandro D’Avenia è sicuramente stato scritto come auspicio di una scuola diversa dove, anche i nomi propri, come quelli degli alunni pronunciati durante l’appello per accertarne la presenza giornaliera in classe, possano e debbano corrispondere alle persone che quel nome rappresentano, nell’interezza della loro storia individuale che non può essere ignorata durante l’insegnamento di qualsiasi materia scolastica ma deve essere sostenuta nelle sue insite difficoltà da chi, sulla cattedra, ha il compito di traghettare gli alunni all’interno di una reale comprensione della vita vera.

Omero Romeo (il cui nome emblematico deriva dalla passione di sua madre per i classici e per gli anagrammi) è un professore di Scienze quarantacinquenne che, a seguito di una malattia, è diventato cieco. Dopo qualche anno di assenza dalla scuola per ovvi motivi di salute, riprende l’insegnamento presso un Istituto Superiore. Gli viene assegnata dal Preside la classe più difficile, composta da 10 alunni maturandi che i docenti considerano tutti “casi disperati” e che sono stati ghettizzati in un unico blocco e non suddivisi tra le varie classi come sarebbe stato più giusto e logico.

Il Prof. Romeo però ha un metodo d’insegnamento anticonvenzionale che dà la priorità all’interazione tra “maestro” e “alunno” e tra “alunno” e “maestro”. Essi, così, possono godere di vicendevoli scambi non solo di cultura ma di esperienze intime che spesso hanno un potere salvifico per entrambi. Il suo modo di fare l’appello, a causa della disabilità che gli è propria, è piuttosto originale: è fondamentale che lui conosca i suoi allievi non solo con il tatto, il più sviluppato dei sensi per chi non ha la vista, ma è necessaria da parte loro, attraverso la parola e il dialogo, una condivisione giornaliera di un pezzo della loro storia personale per farsi conoscere da lui ma anche dagli altri.

I dieci ragazzi della classe, dopo le prime perplessità, accettano di buon grado questo sistema e ci credono sempre di più tanto da operare in questo senso una vera e propria rivoluzione (che come ogni rivoluzione avrà il suo prezzo) che non si fermerà ma coinvolgerà altre classi e altre scuole fino a finire in Parlamento come una delle nuove proposte per una scuola più equa e a misura umana.

Dopo quindici anni dalla maturità, si daranno tutti un appuntamento imprescindibile per verificare se le aspirazioni di ognuno, scritte in un biglietto e conservate dal Professore, saranno state realizzate nel corso della loro vita adulta.

Questo libro è un vero trattato di filosofia, un po’ spicciola e molto slegata dalla realtà attuale, con stereotipi e grandi incongruenze. Così come avevo notato in “Cose che nessuno sa” (2011) dove tutti filosofeggiavano non esclusi bambini di cinque anni che parlavano per metafore, citando, teorizzando, sciorinando dogmi, elucubrando fino al parossismo, mitizzando, concependo e deducendo, anche qui il linguaggio di questi liceali raggiunge vette improbabili che, attraverso la loro bocca, sono chiaramente cosparse di polvere d’irrealtà.

Il loro Professore (evidente alter ego dello scrittore) assurge ad un ruolo messianico improbabile che trova l’immediata ed entusiastica accoglienza dei suoi discepoli che vanno a moltiplicarsi più dei pani e dei pesci di evangelica memoria.

Lui ha in mano la verità di tutto, quell’Amore alto e luminoso che è il solo viatico per una vita che può essere definita completa. Un amore che però, denota alle sue spalle, la grande presunzione dell’autore-professore in grado di appianare repentinamente ogni difficoltà attraverso le sue omelie studiate a tavolino affinchè siano trasformate in verità assolute, degne di essere ricordate e annotate come principi imperativi che non ammettono divergenze.

Il messaggio trasmesso può anche essere rischioso perché spesso l’affetto, anche quello di un buon insegnante, non è bastevole per risolvere problemi di una certa gravità e l’improvvisazione e i buoni propositi, uniti ad una bella dose di paternalismo buonista non sono in grado di risolvere situazioni alquanto complicate solo perché capaci di avvalersi di quattro pillole di saggezza sparse tra le pagine con troppa tracotanza.

Con il suo stile enfatico, furbescamente ammantato di lirismo, in realtà di magniloquente presunzione, non mi è possibile consigliarlo anche se, come ripeto sempre, questa è solo la mia personale opinione spesso in dissonanza con tante altre, come è legittimo che sia.

Recensione di Maristella Copula

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